Lettera per chi ne aspetta una

di Rebecca Giusti

 

Poesia che scrissi l’anno scorso ma che credo sia in tema con la data di oggi: tutti sanno quanto manca all’esame, dove andare il sabato, come organizzare la settimana fra sport e caffè con vecchie conoscenze e amici di sempre, ma che ne sappiamo noi dove saremmo fra quattro o cinque mesi. Mandiamoci lettere, parliamo da soli e riflettiamo su chi siamo stati questo lungo tempo seduti davanti a un tavolo quadrato con fogli sparsi sopra, per capire bene dove stiamo andando, per sapere tremando dalla gioia e dall’ansia chi vogliamo essere. Ricordiamo ciò che abbiamo fatto per arrivare dove siamo, le parti belle, la nostalgia e ciò che ci ha fatto male, che ci ha reso noi aprendoci varchi dentro per vedere meglio quello che ci fa sentire piccoli, indifesi e con la costante voglia di cambiare aria. Ora non è più come quando camminavamo stremati lungo il sentiero chiedendoci quando tutto sarebbe finito e saremmo giunti a uno di quei rifugi poco illuminati che ti permette di fare un sospiro di sollievo, ora il cambiare aria è ciò che ci viene imposto, richiesto, quello che siamo chiamati a fare. Anche se ci allontaneremo, vivremo un sacco di vite opposte e ci guarderemo intorno chiedendoci che fine ha fatto quel nostro passato angosciante e adrenalinico che sembra un racconto letto di sfuggita in un libro lasciato a metà, saremo sempre ciò che questo posto, che le persone che ci sono state accanto e l’aria che abbiamo respirato ha formato. Non cambieremo mai aria davvero. Leggi tutto “Lettera per chi ne aspetta una”

Ad Maturandum: lettera ai 100 giorni

Una lettera di Pino, per tutta la classe V A

100 giorni alla Maturità… M A T U R I T À nemmeno fossimo
albicocche in pieno agosto. Un esame a cui ci prepariamo da soli cinque
anni, la grande prova partorita dalle grandi menti del Ministero
dell’Istruzione! 100 giorni: a malapena 2000 ore, 144000 minuti, 8640000
secondi; per recuperare il programma di un anno, scegliere l’università,
vivere tutta la scuola che ci siamo persi. È solo una questione di numeri.

100 come il numero scritto sul bigliettino che getterò nell’Arno. 100
come le pagine per la verifica di sabato. 100 come le spire di uno stupido
solenoide. 100 come i chilometri fatti a corsa per non perdere quel
maledetto pullman delle 7.19. 100 come le ore di alternanza, che ormai
non serviranno più a niente. 100 come i chilometri tra me e il mio
storico compagno di banco, quando a settembre si sarà trasferito
all’UniBo.

E poi una, nessuna, centomila folli idee per l’anno prossimo.
Forse sarà un nuovo glorioso inizio o semplicemente una brusca fine,
come un’onda che cancella le impronte nella sabbia, come una cimosa
polverosa che strappa via tutti quei preziosi segni dalla lavagna.
Siamo come affacciati sulla cima di un grattacielo, abbiamo fatto tanta
fatica per arrivare dove siamo, scalino dopo scalino, e poi
improvvisamente una scossa di terremoto rischia di far crollare l’intero
edificio. Così ti avvii a passo svelto verso il cartello verde con scritto
exit.

Ma correndo ti chiedi se vale la pena scendere pacatamente le scale
d’emergenza, sembra una decisione razionale, tipo ingegneria o
giurisprudenza, e poi “strappare lungo i bordi” fino a guardare con
sereno distacco il palazzo in lontananza mentre si fa sempre più piccolo
e opaco. Oppure, forse, è meglio lasciarsi crollare tutto addosso,
piuttosto che abbandonare il proprio grattacielo. “Beh ma così
moriresti!”, che nella nostra metafora vorrebbe dire essere un triste disoccupato che nel tempo libero gioca ancora coi Pokemon, e sì: che c’è
di male?

Scendere quelle scale fa tanto paura quanto rimanere immobile durante il
cedimento, non sapere cosa ti aspetta dopo, un futuro buio e fumoso,
dire addio, dire addio ad alta voce fa paura.
Ma sotto sotto, un po’ ci attraggono le scale e il vuoto della caduta,
sedotti dall’ignoto, siamo curiosi, che brutta condanna.
E via, verso questi ultimi 100 giorni, che non aspettano altro che essere
riempiti da sdolcinate speranze, mentre il rombo del terremoto e il
cigolio delle scale d'emergenza ci aspettano.

 

Hi Putin!

di Alessandro Vannucci

 

È ritornata, la guerra è ritornata in Europa.

Lei è qui con tutta la sua cattiveria, con la sua crudeltà, con il suo seguito di ingiustizie e con tutto ciò che ne deriva.

Palazzi distrutti, continui bombardamenti, lacrime e sangue che inondano le strade sono la cornice del quadro che nessun uomo vorrebbe avere, il quadro della guerra.

Rimanendo legati all’ambiente artistico potremmo descrivere la guerra come l’arte dell’orrore, i cui artisti si distinguono per l’amore nella distruzione della civiltà e dei traguardi che ne derivano.

Uno di loro è ovviamente il grande e supremo leader russo, Putin, che è riuscito ad arrivare primo, secondo e terzo alla gara per l’uomo più odiato dell’epoca moderna. Se il suo obiettivo era scrivere la storia lo ha realizzato in modo impeccabile, perché nessuno adesso si scorderà di lui, soprattutto i 44 milioni e 300 mila ucraini. Le stesse persone sono colpevoli, secondo il sommo Putin, di occupare un territorio che non gli spetta ed essere i neonazisti che minacciano la federazione russa. Leggi tutto “Hi Putin!”

Una storia breve

di Rebecca Giusti

 

Una voce le diceva sempre, sibilando come una sirena stonata: “Non conti niente, non sei nessuno, nessuno ti desidera piccolina”. Allora lei si guardava intorno e urlava: “Non sarai mai me, non sarò mai te”.

La ragazza crebbe e la voce si spense come un fuoco su cui buttano una grande coperta bagnata, piano piano ma azzerandosi, come se non ci fosse mai stata, né in quel momento né mai. La ragazza tornò a prendere fuoco come una volta, ma senza bruciarsi come faceva prima, ma scaldando chi le toccava le mani.

(La foto ritrae una bambina che gioca nella fontana che si trova in piazza Maidan a Kiev, 15 anni fa).