Amy March: antagonista o eroina della storia della piccole donne?

Di Alice Da Prato

Amy March, da molti conosciuta con il volto di Florence Pugh, è un personaggio primario del romanzo divenuto poi film, Piccole donne di Louisa May Alcott.

Prima della rappresentazione cinematografica del romanzo dell’Alcott, molti consideravano Amy March l’antagonista della storia, una ragazzina che fin dai primi anni dell’infanzia si dimostra viziata e permalosa, che arriva persino a bruciare il romanzo di sua sorella Jo per una stupida ripicca.

E diciamoci la verità, a molti non va giù il fatto che sia stata proprio lei a sposare il bel vicino di casa Laurie, al posto della sorella maggiore Jo, con la quale il ragazzo aveva avuto una storia in passato.

Insomma, descritta in questo modo la piccola Amy sembra proprio avere tutte le carte per essere odiata.

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Tanto pe’ scrive, cento anni di Nino Manfredi

di Alessandro Rosati

Questo è un articolo scritto tanto pe’ scrive, insomma pe’ fa quarchecosa. Un po’ come tanti del resto. Capita di mettersi seduto alla scrivania, digitare velocemente sulla tastiera e d’improvviso sentire quell’impulso immediato e inarrestabile di voler dare un senso a quel fiume di parole che scorre impetuoso in testa. In mente, un motivo simpatico e orecchiabile. Recita più o meno così: “Tanto pe’ cantà, perché me sento un friccico ner core…”.

È una celebre canzone di Nino Manfredi (anche se originariamente fu composta dall’inarrivabile Ettore Petrolini), che ne fece un suo cavallo di battaglia, sempre che ne avesse bisogno. Perché, diciamocelo, Manfredi non ha forse la stessa gloria di altri attori del secolo scorso, eppure è stato eccezionale quanto e più di loro.

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Natura e cultura attraverso la vita di un cane

di Giulia Meconi

“Del nomade passato nostalgia

Spezza del viver nostro le catene, 

E dal nebbioso sonno ove dormía 

Desto lo slancio ferino rinviene.”  

   Questa poesia è molto significativa e riassume molto bene il contenuto e soprattutto il messaggio de Il richiamo della foresta, che è forse il più celebre libro d’avventure di Jack London, insieme a Zanna bianca. Il titolo originale è The call of the wild. Appartiene alle opere giovanili di London come ci attesta l’uso di un linguaggio semplice, esplicito e spedito che non troviamo nei suoi romanzi della “maturità”.                 

   Ambientato nelle gelide foreste in Alaska, nel Klondike, terra della corsa all’oro negli anni in cui London ambienta la sua storia, ha come protagonista Buck, un gigantesco cane, un incrocio tra un San Bernardo e un pastore scozzese, che fugge dalle leggi dell’uomo per riprendere la sua esistenza selvaggia a contatto della natura.

   “Buck non leggeva i giornali altrimenti avrebbe saputo quale guaio stava bollendo in pentola, non per lui soltanto, ma per tutti i cani d’una certa mole con forte muscolatura e un caldo e lungo pelo, dallo stretto di Puget fino a San Diego. Giacché annaspando nelle tenebre linee marittime e compagnie di trasporti antiche gli uomini avevan scovato un biondo metallo, e linee marittime e compagnie di trasporti davano risonanza alla scoperta, migliaia e migliaia di persone accorrevano verso le terre del Nord.” 

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