Sul metterci una pietra sopra5 min read

 

 

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di Abramo Matteoli*

Esplorando i vicoli del nostro linguaggio mi rallegro spesso della folta presenza di espedienti semantici perfetti. La loro preziosità è di facile riconoscimento, in quanto descrivere il vissuto è quanto di più complesso si possa fare: un’audace impresa globale ed erculea a cui tutti siamo sottoposti. In particolare, credo che l’universalità di questo compito non sia dovuta alla necessità di comunicare che il vivere in società ci impone, piuttosto, imputo questa caratteristica alla profonda esigenza di mentalizzare ciò che ci accade. Esattamente come abbiamo bisogno di una spiegazione verbale per comunicare ad un nostro amico ciò che ci succede e come ci sentiamo a riguardo, abbiamo bisogno di una formula linguistica per rappresentare mentalmente gli eventi e le sensazioni. Affermo questo in quanto credo che la riflessione sentimentale in termini semantici (la famosissima “voce interiore”) sia necessaria alla rielaborazione e alla manipolazione del pensiero di ciò che ci accade. Il dialogo introspettivo del rimuginare supera quindi le immagini sinestetiche. SI può mentalizzare la nostra rabbia visualizzando il colore rosso, ma non si può riflettere sul perché senza dialogare con noi stessi utilizzando il linguaggio.

Riconoscendo dunque la crucialità della nostra lingua nel dar forma al nostro solitario pensiero, è naturale apprezzare la presenza di modi di dire efficaci, e formule azzeccate. A questo proposito, pochi modi di dire sono evocativi quanto il “metterci una pietra sopra”. Quattro parole lapidarie, innesco di un’immagine chiara e definitiva. Ci mettiamo una pietra sopra quando abbiamo chiuso con qualcosa. Ci lasciamo alle spalle un evento che ne ha bisogno, e che probabilmente non è stato di semplice gestione. 

Così, come l’antica porta di una cripta dimenticata, la nostra immaginaria pietra seppellisce il momento passato, giurando di prevenire qualsiasi tentativo di rivangarlo (o addirittura di profanazione). Dopo averci messo una pietra sopra, conserviamo una borsa limitata di lezioni imparate e nient’altro. Il nostro sguardo si posa gentile sull’orizzonte futuro, e non ci permettiamo di guardare indietro. In fondo, a volte fa bene. Si sa, il passato, a volte, va lasciato andare. 

Eppure, io credo che il metterci una pietra sopra sia un’espressione fin troppo iperbolica per poterci davvero venire in aiuto. La promessa di abbandonare mentalmente ciò che ci accade, e l’arrogante convinzione di esserne capaci, sono premesse inevitabilmente destinate a infrangersi nell’inamovibile certezza della realtà.

Come possiamo arrogarci il diritto di prender l’armi contro il nostro ricordo e attentare alla vita del nostro rapporto con esso? Dichiarare guerra al nostro rimuginare non è che una mancanza di rispetto nei confronti della nostra mente arrovellata. Arrovellata sempre e comunque per una buona ragione, e mai ingiustificatamente. Mancare di rispetto al bisogno di ripensare equivale a dichiarare che si rinuncia al superare qualsivoglia pensiero invasivo. Invasivo perché martellante, certo, ma martellante perché affamato di risposte, bisognoso di una soluzione.

Sono sicuro che scendere nel circolo vizioso dell’analisi del ricordo non sia sempre un’inutile corsa sul posto, nonostante possa assumere le sue sembianze. Quindi, dove potrebbero mai essere i benefici del ripercorrere migliaia di volte il solito percorso, valutando ancora e ancora gli stessi eventi, sovente giungendo alle medesime conclusioni?

La soluzione giace nella prospettiva che assumiamo nel concettualizzare il percorso mentale che ognuno di noi compie per risolvere il proprio rimuginare. 

Nel mulinello pesante delle emozioni che proviamo, infatti, non esiste la linearità caratteristica del progetto imprenditoriale. Siamo quotidianamente sottoposti a sentimenti indicibili, che nonostante rappresentino indubbiamente la bussola saccente del nostro vivere, sono di difficilissima gestione cognitiva. Questi, infatti, non potranno mai guidarci verso pascoli migliori se spegniamo il dolore psicologico che ci provocano lapidandoli a colpi di pietre sopra. Esattamente come i valorosi scriba del passato facevano con i loro preziosissimi testi, i pensieri vanno riletti e reinterpretati, analizzando il messaggio con cura, affrontando stoicamente la difficoltà del compito. Sarà la nostra stessa mente ad indicarci quando avremo fatto abbastanza. Non si raggiunge il benessere della psiche nascondendo un pensiero spiacevole sotto il nostro tappeto cognitivo, esattamente come non si è veramente pulita casa se ci si limita a spruzzare del deodorante. Mettere una pietra sopra non risolve niente, e non fa nient’altro che mettere il coperchio ad una pentola che bolle, preparando le condizioni favorevoli per una brutta puzza di bruciato. I nostri pensieri non svaniscono, e il fantoccio di un sepolcro interiore è solo la popolare scusa per praticare un edonismo spiccio e inefficace.

Mentre ci impegniamo per crescere ed imparare da ciò che ci accade, costruendo un Io consapevole e attento, possiamo ripensare questo subdolo modo di dire in chiave positiva. Di fatto, Il pensiero invasivo e difficile di un evento cardinale può essere strumento per il nostro percorso di crescita. In questo senso, il metterci una pietra sopra può rappresentare l’atto centrale del costruire, piuttosto che del seppellire. Mettere una pietra sopra è posizionare l’ultimo mattone della nostra torre, sicuri della vista consapevole che ci aspetta più in alto. Mettere una pietra sopra è aggiungere uno scalino a tutti quelli che abbiamo salito, mentre ci arrampichiamo con sudore sulla montagna della nostra evoluzione interiore. Mettere una pietra sopra è aggiungere un fondamentale tassello al mosaico del nostro essere.

Non c’è bisogno di abbandonare il ricordo nel cimitero del passato e, soprattutto, non abbiamo alcun bisogno di sforzarci per abbandonarlo. 

Quando guarderemo con orgoglio la torre che abbiamo costruito. Quando realizzeremo quanto è bella la vista dall’alto della montagna. Quando faremo un passo indietro per osservare la completezza del nostro mosaico. Potremo allora rivisitare la nostra pietra, fieri di averla posizionata, compiaciuti del nostro coraggio nel farlo. Questo, affinché la nostra rivalutazione psicologica non si riduca ad un fastidio da abbandonare, o ad una malattia da soffocare con il massiccio farmaco calcareo della pietra sopra.

La nostra esperienza, così, si trasformerà in un libro aperto di sforzi compiuti, e di eventi che siamo felici di aver vissuto.

Che il registro cognitivo dei nostri ricordi sia sacro consigliere del nostro agire, e non l’indifesa vittima di un omicidio senza cuore. Che al ripensare sia dedicato tutto il tempo che serve, e che non si fermi mai, ogni volta che ce ne sarà bisogno.

Solo così costruiremo con consapevolezza, e impareremo davvero da ciò che ci accade.

Chi è senza paura, posi la prima pietra.

*Abramo Matteoli si è diplomato al Liceo Linguistico “Vallisneri” nel 2020; si è laureato in Psicologia all’Università di Manchester nel 2023. Adesso, in qualche modo, se la cava e ogni tanto scrive.

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