Il Dodgeball

di Francesco Mammone

   Calcio, basket, pallavolo, tennis… Questi sono gli sport più praticati dai ragazzi negli ultimi anni. Io sono Francesco, un ragazzo di 16 anni al quale, come penso alla maggior parte, piace fare sport. Io però non pratico nessuno degli sport elencati lì sopra, al massimo da piccolo avrò provato basket e forse calcio. Lo sport che pratico io non è molto conosciuto, anzi, possiamo dire che la gente appena lo sente nominare pensa e dice sempre <<Ah, ma esiste come sport?>> oppure << Non pensavo fosse agonistico come sport>> e fin qui tutte le risposte sono accettabili. Ci sono però stati alcuni casi in cui mi è arrivato questo tipo di risposta <<Invece di metterti a fare calcio o basket, ti sei messo a praticare questa “cosa” da sfigati, ma non ti vergogni?>>. Io all’inizio mi sentivo offeso, perché in questi casi già venivo praticamente escluso solo perché pratico uno sport non conosciuto, o al massimo poco conosciuto perché giocato solo a scuola nell’ora di ginnastica. Ma io, proprio per queste risposte, sono felice e orgoglioso di fare questo sport, perché ho capito che sono stato in grado di distinguermi.

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Jamie Vardy, il bomber della gente

di Alessandro Rosati

   Dai monti del South Yorkshire, in Inghilterra, scende placido il fiume Don che con le sue anse eleganti attraversa la Contea e la città di Sheffield. La calma del corso d’acqua però si scontra inevitabilmente con lo scenario da Rivoluzione Industriale della stracittadina. Sheffield è famosa in tutto il Regno per la produzione di acciaio e ciò non può che implicare una caratteristica peculiare e forse non molto nobile: la presenza di industrie (e non poche). Tra palazzi moderni sbucano stabilimenti metallurgici, meccanici, metalmeccanici e chi più ne ha più ne metta.

   Proprio qui, nel rumore assordante dell’industria, lavora un ragazzo di vent’anni. È il 2007. Quel ragazzo guarda e maneggia i suoi attrezzi industriali con la meccanicità di un operaio, ma i suoi occhi sognano già la fine della giornata e ciò che lo aspetta: due porte, un pallone e un campo d’erba, forse. Già perché magari neanche il manto erboso ricopre quei 100 metri di magia, ma a lui va bene lo stesso: l’importante è giocare a calcio. Scordatevi i prati perfetti, le interviste e i milioni, perché il calcio dilettantistico sarà anche passionale ed emozionante, ma è terribilmente crudele. Dopo una giornata di lavoro infatti, ad aspettare quel ragazzo ci saranno i suoi compagni, il mister, qualche pallone e il freddo aspro dell’inverno Inglese.

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L’Italia pazza e geniale di Euro 2000

di Alessandro Rosati

   Correva l’anno 2000, in radio impazzava Ops I did it again di Britney Spears e l’Italia era in corsa per la finale dei primi Europei del nuovo millennio. Il 29 Giugno l’Amsterdam Arena è un pallino arancione in mezzo alla capitale Olandese: i quasi 55mila posti dell’attuale Johann Cruijff Arena sono occupati quasi completamente da sostenitori degli Orange, che immaginano già Berkgamp e compagni contendersi il titolo in finale con la Francia.

   Dopo 34 minuti Zambrotta viene espulso per doppia ammonizione: gli Azzurri sono già in 10 uomini. Per l’Olanda la strada è in discesa, forse. Eppure quel giorno quella compagine col tricolore cucito sul petto decise di incidere i propri nomi nella leggenda.

Sarà un tiro al bersaglio verso la porta difesa dall’Italiano Toldo, ma il numero 12 della Nazionale abbasserà la saracinesca cosicché Maldini e Cannavaro non dovessero mai raccogliere il pallone in fondo alla rete.

   È la serata di Francesco Toldo, ai posteri la leggenda della semifinale di Euro 2000.

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La morte del calcio

Fonte foto: profilo Instagram Seria A Tim

di Alessandro Rosati

   Mercoledì sera si è giocata Napoli-Juventus, partita valida per decretare chi si sarebbe potuto gongolare con la Coppa Italia fra le mani. L’onore è stato dei Partenopei, che si sono aggiudicati la finale ai rigori, senza supplementari. È proprio da qui, da quei tempi supplementari eliminati completamente, che è partito il declino di un calcio ormai senza emozioni.  Quei tempi supplementari sono un urlo strozzato in gola: l’urlo di chi, in piedi su un seggiolino dello stadio, sotto il sole cocente o sotto la pioggia battente, con la temperatura gelida e magari dopo 500 km di trasferta, avrebbe esultato per un goal della sua squadra. Quell’urlo rimasto fermo, immobile, bloccato nel tempo da Marzo, quello che tutti gli Italiani (e non solo) all’unanimità vorrebbero gridare.

   È come l’urlo di Tardelli ai Mondiali dell’82, è la vena di De Rossi che si gonfia dopo un goal, o il rigore di Grosso nel 2006. Ma è anche il fallo di Iuliano su Ronaldo, la beffa dell’arbitro Moreno nel 2002 e il rigore di Baggio nel ’94. Ed è lo stesso identico urlo di un ragazzino per strada, dopo aver visto il suo pallone entrare in una porta improvvisata con due maglie o con un qualsiasi oggetto trovato sul posto.

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