Dopo l’assoluto presente7 min read

Che cosa succede se iniziamo a pensare al futuro come a un dopo?

di Riccardo Orgolesu*

Nell’epoca storica in cui viviamo il futuro è quanto di più incerto, angoscioso, disorientante ci si possa trovare davanti. È un’incognita, qualcosa che arriverà; è necessario, ma non è più una promessa: è una minaccia incombente. Quando il futuro smette di essere un obiettivo, un che di consolante, e comincia invece a essere qualcosa da guardare con diffidenza, è allora che smette di motivare e diventa, al contrario, fonte di demotivazione. Tratta brillantemente il tema Umberto Galimberti, nei saggi L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani e La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo. Galimberti, fine psicoanalista, rifacendosi a Freud e alle definizioni di Nietzsche, da anni studia il fenomeno del disagio giovanile nell’età del nichilismo. Il nichilismo, tra le altre cose, è la mancanza di uno scopo. Il futuro è incerto perché, non avendo un obiettivo da perseguire, non riusciamo a plasmarlo, e diventa quindi qualcosa da vivere con passività. Viviamo in un “assoluto presente”, perché, non potendo immaginare il futuro, lo temiamo. È l’ancestrale paura dell’ignoto.

Non avendo prospettive per il futuro, possiamo al massimo avventurarci nel “dopo”: dopo un determinato evento, come immediata conseguenza di una determinata azione. In questo modo siamo riusciti a desensibilizzarci nei confronti del futuro, tanto che questo diventa una maschera per la procrastinazione, per rimandare a un secondo momento, non meglio specificato, ciò che vorremmo evitare. Il futuro, da incerta minaccia, diventa il cassetto in cui chiudere e dimenticare le incombenze cui sottrarsi. E, nell’assoluto presente in cui viviamo, il sovraccarico di stimoli sensoriali a cui siamo sempre più esposti – e assuefatti, giacché abbiamo il bisogno di sottoporci a stimoli via via più intensi – funge da distrazione per evadere all’angoscia provocata, di nuovo, dal futuro.

Per Galimberti, il fenomeno non è più soltanto psicologico, ma culturale e con cause profondamente radicate nella società moderna e nel mondo saturo di stimoli in cui viviamo. E a questi fattori bisogna aggiungere, troppo spesso, famiglie assenti, riforme della scuola che, andando contro al lavoro degli insegnanti, puntano a valorizzare la mera prestazione e non più a conoscere gli studenti, la precarizzazione del lavoro, che rende sempre più incerto e instabile il futuro; tutti elementi che incidono profondamente, prima nello sviluppo di un bambino e di un adolescente, che ha il forte bisogno di sviluppare la propria emotività per interfacciarsi con il mondo e trovarci il proprio posto, e poi nella salute psicofisica di un giovane. E tutto questo già prima dell’incursione nelle nostre vite della pandemia e della guerra in Ucraina.

L’improvvisa comparsa del Covid-19 ha stravolto le vite di tutti noi. Quella che, inizialmente, almeno ai nostri occhi, doveva essere poco più di una banale influenza, si è rivelata una grave minaccia per la salute della comunità globale. Ma non è tutto.
Il 9 marzo 2020 il tempo si ferma. Le misure di contenimento applicate fino a quel momento in Lombardia si estendono a tutta la penisola. Le scuole erano già state chiuse pochi giorni prima. Ci siamo dovuti adattare a una nuova vita che ci ha colto alla sprovvista. La prima reazione è stata un moto di speranza. “Ce la faremo!” recitavano gli striscioni appesi fuori dagli edifici. Non si sa come, non si sa quando, ma ce la faremo. Ci si riuniva la sera, a distanza, dai balconi, e si cantava, si suonava, ci si confortava a vicenda. Per un po’ è andata così. Ma alla fine, in qualche modo, il peso della disperazione ha schiacciato tutti. Dietro ai messaggi di speranza, ai tentativi di restare allegri, alle attività che ci si imponeva di fare per avere una parvenza di controllo della propria vita, c’era l’angosciante realtà di coppie che si sfasciavano, logorate da una convivenza forzata, di ragazzi impotenti la cui vita sociale crollava, limitata alla mediazione di uno schermo – sempre se ce lo si poteva permettere –, della consapevolezza che, per molto tempo, nulla sarebbe stato come prima, e forse non lo sarebbe stato mai. Molti morivano. Chi non è morto, ha perso amici, parenti, persone care. La desolazione aumentava insieme ai contagi e alla conta dei morti. Si assisteva inermi al macabro spettacolo delle fosse comuni, dei convogli militari carichi di bare, delle persone che se ne andavano senza che fosse nemmeno celebrato il rito funebre. L’umanità ci abbandonava. Un attimo è bastato per arrivare a tutto questo. Una casualità, direbbero alcuni; destino, potrebbero pensare altri. La sostanza non cambia. Come si può avere certezza del futuro, dopo aver visto coi propri occhi quanto poco basti a stravolgerlo?

Lo scoppio della guerra in Ucraina, poi, è stato un’altra doccia fredda. Da un giorno all’altro ci siamo ritrovati, di nuovo, a vivere in uno stato di apprensione, ad attendere spasmodicamente nuove notizie, a guardare, inermi, una popolazione martoriata dall’invasore. Lo spettacolo è agghiacciante: bombe sganciate su obiettivi civili come l’ospedale pediatrico di Mariupol, uomini, donne e bambini nascosti nei rifugi antiaerei, sotto i palazzi, famiglie in fuga costrette a lasciare indietro un padre, un figlio, un fratello, obbligati ad arruolarsi. Ma la cosa che più ha destabilizzato noi, occidentali che troppo spesso riusciamo a pensare solo a noi stessi, è il ritorno della guerra in Europa. Non siamo più intoccabili. La guerra, questa volta, ce l’abbiamo sotto casa, e non in qualche paese del terzo mondo che guardiamo solo per sfruttarne le risorse.

Di fronte a questi eventi, è davvero difficile pensare a un futuro. Come individui, ma anche e forse soprattutto come comunità. Al di là di tutto, l’assoluto presente è un’illusione che ci siamo creati per non dover avere a che fare con il futuro, e, per quanto difficile, dobbiamo riuscire a superarlo. Il futuro, prima di quanto si pensi, arriva. Il dopo è imminente; probabilmente alcuni dopo che abbiamo cercato di rimandare in questi anni sono già arrivati, ed è necessario prenderne atto. Sarebbe un errore pensare che non esista più il Covid e che non sia più necessario adottare delle misure di prevenzione, soprattutto per salvaguardare i più fragili; eppure, stiamo tornando alla normalità. In questo dopo, che è adesso, possiamo spostarci liberamente, vedere i nostri amici e i nostri cari. Per quanto sia difficile, adesso ci è possibile superare anche le conseguenze psicologiche della pandemia, ed è nostro dovere in quanto comunità aiutare in questo senso chi ne ha bisogno. E poi, abbiamo anche ricavato qualcosa di positivo dall’esperienza. La ricerca scientifica che ha permesso di sviluppare in così pochi mesi dei vaccini contro un virus pressoché sconosciuto è ora un patrimonio scientifico che ci permetterà di essere pronti, eventualmente, a fronteggiare nuove epidemie, e, come già sta accadendo, di creare cure e strumenti di prevenzione per molte altre malattie. Non solo infettive, ma anche, per esempio, il cancro, contro cui si stanno sviluppando delle cure a base di mRNA – non a scopo preventivo, ma terapeutico – che dovrebbero stimolare la produzione di antigeni che attacchino le cellule cancerose, e che hanno già ottenuto ottimi risultati nella seconda fase di sperimentazione.

Se è più facile pensare a un dopo-pandemia che è già qui, diventa più impegnativo immaginare e prepararsi a quello che sarà il dopoguerra. Per poter andare avanti non è più possibile tenere il piede in due scarpe, ma bisogna che tutte le forze politiche prendano posizione, con la consapevolezza che ci sono un aggredito e un aggressore. Fatto ciò, in modo fermo e inequivocabile, sarà possibile andare avanti cercando la pace. I paesi europei che condannano la Russia e aderiscono alle sanzioni probabilmente cesseranno l’importazione di gas russo, spingendo sulle energie rinnovabili, sul nucleare pulito e su nuovi rapporti commerciali internazionali – non con altri dittatori, si spera. Ora che la guerra è arrivata anche in Europa e la bolla in cui vivevamo è scoppiata, la politica, l’informazione e l’opinione pubblica dovrebbero prestare più attenzione – anche se temo che non accadrà – a ciò che succede nel mondo, e non solo in Occidente. Ciò che è successo dovrebbe sensibilizzarci, costringerci finalmente a non guardare più dall’altra parte di fronte alle dittature, alle guerre, alle continue e sistematiche violazioni dei diritti umani che avvengono tutti i giorni.

Il futuro può essere angosciante, soprattutto in un periodo come quello che stiamo attraversando. Il presente, in questo senso, diventa un rifugio temporaneo. Pensare al futuro come a un dopo può aiutare, perché, seppur più imminente, il dopo è anche più facile da definire e pianificare. È essenziale che ciascuno di noi trovi il coraggio di guardare al dopo e sappia vedere con chiarezza quale ruolo voglia avervi. È una responsabilità importante che abbiamo in quanto individui e in quanto comunità in costante evoluzione, uscire dall’assoluto presente e farci carico di quello che sarà il nostro futuro, per il bene nostro e di chi verrà dopo di noi a vivere nel mondo che avremo lasciato e a giudicare il nostro operato.

*Riccardo Orgolesu frequenta la classe I B del Liceo classico “Antonio Gramsci” di Olbia

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