Grand Jeté verso la scrittura9 min read

Un’intervista a Leonetta Bentivoglio a cura di Federica Evangelisti

 

Ho intervistato Leonetta Bentivoglio, scrittrice e giornalista italiana che ha avuto nel suo passato esperienze di danzatrice e coreografa. È stata storico della danza e autrice di volumi sulla danza contemporanea e sul teatrodanza di Pina Bausch. Ha collaborato con diverse testate e scrive dagli anni Ottanta sulle pagine di Cultura e Spettacoli del quotidiano La Repubblica. Per alcuni anni ha fatto il critico di danza. Attualmente si occupa soprattutto di musica classica e di letteratura con interviste e recensioni.

 

1) Come mai ha scelto di fare la giornalista e soprattutto, all’inizio del suo percorso, di focalizzarsi sulla danza?

“Voglio chiarire subito una cosa: oggi non lavoro più nell’ambito della danza. Ma è vero che ho iniziato il mio itinerario professionale come storico e critico di danza. Ho seguito sempre, fin da ragazzina, le arti dal vivo: musica, danza e teatro. Parallelamente ho sempre amato moltissimo scrivere.

Mi sono laureata in Filosofia negli ultimi anni Settanta, e mentre stavo all’Università ho cominciato a collaborare con “Il Manifesto”.

Io stessa studiavo danza. Durante la mia giovinezza ho frequentato classi quotidiane di danza contemporanea e sono stata attratta soprattutto dai linguaggi del Novecento, secolo lungo il quale sono nate nuove tecniche e nuovi stili alternativi al balletto classico-accademico. Il fatto di scrivere sulla danza coniugava le mie due maggiori passioni.

Dopo la laurea in Filosofia, presa a Roma, sono andata negli Stati Uniti dove ho coltivato molto il mio interesse per la danza contemporanea. Ho trascorso un periodo piuttosto lungo a New York studiando in prima persona le tecniche di Martha Graham e di Merce Cunningham, due tra i massimi coreografi americani del ventesimo secolo. Ho scritto un libro, “La Danza Moderna”, pubblicato da Longanesi, che poi, negli anni Ottanta, è stato rivisto, ampliato e riproposto dallo stesso editore con un altro titolo, “La Danza Contemporanea”. Si trattava dell’unico libro esistente sui linguaggi emersi nel Novecento, ed ebbe una certa diffusione. Grazie al suo piccolo successo, ho iniziato a collaborare con “L’Espresso” per poi passare a “Repubblica”.

Ciò che mi preme segnalare è che mi sono dedicata al lavoro di critico di danza, in maniera intensa e a tempo pieno, soltanto fino agli anni Novanta. Dopo sono stata assunta nella redazione culturale della “Repubblica”, dove scrivo da decenni. Anche adesso che sono in pensione, continuo a lavorare per “Repubblica” come collaboratrice esterna. Per molto tempo ho lavorato all’interno della redazione, e ovviamente, stando dentro un giornale, non ci si può occupare soltanto di danza. Mi sono quindi dedicata pure ad altri settori, approfondendo quelli che erano già i miei interessi. Avevo seguito e anche studiato la musica, ed ero stata sempre una fortissima lettrice di romanzi. Da vari anni, ormai, mi occupo giornalisticamente di musica classica, di lirica e di letteratura. Credo di potermi definire una giornalista culturale.

2) Quali sono i pro e i contro del suo lavoro? Se tornasse indietro nel tempo, cambierebbe qualcosa?

Mi è difficile, caratterialmente, immaginare di tornare indietro: non mi piacciono le persone che vivono di rimpianti. Fin da bambina, ho saputo che il mio lavoro sarebbe stata la scrittura. Scrivere è la mia passione. È un’attività faticosa ma molto naturale per me. Sono convinta che, se facessi un salto a ritroso nel tempo, mi metterei a scrivere come ho sempre fatto. Il giornalismo è un lavoro in cui conta moltissimo l’esperienza, nel senso che esige mestiere, poiché richiede tecnica e velocità. Adesso che ho tanta più esperienza di venti o trent’anni fa, confesso che mi piace sentire di avere il pieno controllo sul mio lavoro.

Il giornalismo è un’attività bellissima, ma chiede elasticità, disponibilità e rapidità sia di pensiero che di scrittura. I suoi tempi possono essere logoranti, e a volte non permettono al giornalista di andare sufficientemente a fondo nelle cose. Perciò ho avuto costantemente bisogno di ritagliarmi altri spazi fuori del giornale, applicandomi a modalità di scrittura più lente e rigorose. La scrittura di libri è un lavoro assai diverso dalla scrittura giornalistica, nel senso che richiede molto più tempo. Gli articoli giornalistici quasi te li “strappano dalle mani”: il giornale deve andare per forza in stampa a un orario stabilito. Da quando esistono le nuove tecnologie, gli articoli si possono consegnare anche la sera per uscire il giorno dopo, poiché il procedimento di stampa è tanto più rapido. Ma quando ho cominciato a lavorare, il giornale doveva essere pronto alle quattro del pomeriggio per uscire in edicola la mattina successiva. Era necessario aver scritto il pezzo entro quell’orario: i tempi erano cortissimi.

É bello scrivere articoli quando il tema è interessante, ma oggi mi accorgo che le maggiori soddisfazioni le ho ricevute dai miei libri. L’articolo è bruciato dalla velocità e vive nell’attimo: i giornali escono tutti i giorni, e ogni pezzo si consuma e muore nell’arco di una giornata. Un articolo non resta: vola via. I miei libri al contrario vivono a lungo: tutti hanno avuto più di una edizione. Sono testi che restano, e questo è per me molto appagante.

Negli ultimi anni lavoro spesso per il supplemento culturale di Repubblica, che si chiama Robinson ed esce ogni sabato. Mi capita di dover leggere libri anche molto lunghi da cui devo tirare fuori rapidamente un testo. Mi può succedere di avere a disposizione solo quattro giorni per leggere un libro immenso, e poi devo riassumerlo e analizzarlo in un testo solido, coerente e compiuto.

Diciamo che, col passare del tempo, sento sempre di più l’esigenza di fare lavori meditati. Tuttavia insisto nel dire che non ho rimpianti. Inoltre so bene che la mia esperienza nella scrittura deve moltissimo alla mia attività giornalistica.

 

3) Com’è venuta fuori l’idea del suo primo libro?

Come ho già detto, il mio primo libro fu dedicato alla danza del Novecento, e all’epoca non c’era nulla in circolazione sull’argomento. Durante il mio soggiorno a New York, mi sono accorta di quanto fosse intenso e interessante il mondo dello spettacolo dal vivo e di quanto la danza fosse praticata in modo capillare. C’erano moltissime persone che facevano danza in maniera non professionale, cioè solo per sé stesse, senza pretendere che divenisse il loro mestiere. Fare danza “amatorialmente” è una pratica diffusa nell’ambito delle tecniche contemporanee, molto più di quanto accade nel balletto classico, la cui tecnica durissima ha bisogno di essere esercitata in classi quotidiane. Invece nel contemporaneo si può avere un approccio più libero e meno serrato.

Quando ero negli Stati Uniti raccolsi tanto materiale sulla storia della danza moderna. Mi piaceva capire come si erano sviluppate le nuove tecniche di danza e mi resi conto che all’epoca c’era un vuoto editoriale assoluto sul tema. Mi sembrava che si potesse colmarlo, e infatti è stato così. Tra l’altro a quel tempo mancava una scuola storico-critica di danza, che non esisteva neppure come materia universitaria. Feci la proposta di un libro sulla danza del Novecento a un grande editore come Longanesi che mi disse subito di sì.

Ogni libro ha una storia diversa. Certe volte le idee arrivano da sollecitazioni esterne, e per esempio c’è un editore che mi chiede un lavoro specifico. In altri casi sono io a proporre un progetto.

 

4) Ci sono state ballerine che l’hanno colpita di più, nel corso della sua vita?

Ho avuto la fortuna di conoscere molti artisti straordinari, non solo ballerini. Ma la danzatrice e coreografa che mi ha colpito di più è stata senz’altro Pina Bausch, grandissima rivoluzionaria dell’arte che ha unito il linguaggio della danza a quello del teatro e ha rivoluzionato la scena del secondo Novecento. È stata un punto di riferimento e un modello per le generazioni successive. Ha inventato un modo nuovo di usare il corpo in scena e col suo segno originalissimo ha influenzato tutti i campi artistici e in particolare il teatro.

 

5) Quali consigli darebbe a una giovane scrittrice?

Penso che sia necessaria una vocazione di partenza: bisogna avere un grande desiderio di scrivere, poiché si tratta di un lavoro duro e solitario. Esige concentrazione, isolamento e sacrificio.

Il consiglio principale da dare a una persona che vuole scrivere è leggere tanto e bene. Sono convinta del valore dei classici. Ci sono opere imprescindibili: non ci si può mettere a scrivere libri se non si sono letti i massimi scrittori inglesi, russi, francesi e americani.

 

6) Quali suggerimenti darebbe a un giovane giornalista?

Rispondere a questa domanda è difficile perché penso che il giornalismo, oggi, sia in grande crisi.

Appartengo alla generazione della carta stampata, settore che adesso rappresenta più o meno la preistoria… Tre quarti delle edicole che c’erano quand’ero giovane hanno chiuso. I giovani non leggono più i giornali di carta e le edizioni cartacee dell’informazione vanno malissimo.

I giovani lavorano più in direzione dell’online. La rete si rinnova in continuazione e al suo interno il linguaggio è cambiato, nel senso che si fa molta meno attenzione alla forma e allo stile.

Per me è ancora importante la qualità della scrittura. Invece, nel web e nei giornali online, vedo che l’aspetto formale, e anche proprio grammaticale e sintattico della scrittura, è diventato scadente e approssimativo.

Penso che il giornalismo sia un’attività difficile da affrontare adesso perché è un territorio in perenne trasformazione, e quindi i consigli che posso dare sono relativi. Non credo che incoraggerei i miei figli a fare i giornalisti: è diventato un mondo troppo sfuggente e complicato nei meccanismi.

Quando ho iniziato a lavorare era tutto diverso: non c’era Internet, non c’erano i social, non c’erano gli influencer e non c’erano neppure i computer. Il mio solo strumento era la macchina da scrivere: faccio parte di un giornalismo che non esiste più. Credo che mi leggano soprattutto i miei coetanei. I giovani vogliono notizie rapide e continue: cercano l’immediatezza dell’informazione. Premesso che mi sembra un lavoro poco sicuro per un giovane, e che non mi sentirei di consigliarlo a nessuno, se c’è chi vuole farlo a tutti i costi gli direi: buttati, lavora anche gratis, fai esperienza, cerca di entrare in una redazione. Devi vedere come funziona un giornale perché soltanto facendo s’impara. Bisogna tuffarsi concretamente dentro quello che significa stare all’interno di una redazione e costruire uno strumento d’informazione quotidiana.

 

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