Il tango, un’emozione audace che si balla4 min read

di Nello Benassi

   È il 1965 e ci troviamo in un locale di Buenos Aires. Jorge Luis Borges sta parlando del ballo più amato d’Argentina e del mondo: il tango.

   Le sue parole sono rimaste nascoste per quasi sessant’anni in vecchie musicassette, ammucchiate in una scatola di scarpe. Si tratta di quattro conferenze informali e inedite del famoso filosofo argentino pubblicate solo nel 2002 in un’edizione cartacea dallo scrittore Bernardo Atxaga.

   Borges ripercorre la storia del tango in quattro fasi: le origini, i personaggi, l’evoluzione e l’espansione e l’anima argentina.

   Tutto ha inizio nella Buenos Aires del 1880. Una Buenos Aires fatta di case basse, portici bianchi e tram trainati da cavalli. Borges ce la racconta con gli occhi sognanti di un bambino, ma utilizzando le parole dell’epopea greca. È nelle casas malas, agli angoli remoti delle strade periferiche della città, che i compadritos, rendendo onore alla “religione del coraggio” dei loro predecessore, il gaucho, diedero origine al tango. Questa fu la sua iniziale condanna. Il popolo, infatti, riconoscendo questa sua “origine indecente”, lo confinò in una cerchia ristretta di pochi temerari senza scrupoli. Tanto era il timore degli argentini per questo ballo che inizialmente le coppie di ballerini erano formate da due uomini.

   La figura chiave del tango è quella del Compadre, che letteralmente significa “padrino”. Questa figura affonda le sue radici in due categorie di uomini della tradizione argentina: il Gaucho e il Guappo, dei quali si presenta una sorta di alter ego cittadino. Vestito in maniera elegante, col fazzoletto intorno al collo. Sempre spavaldo, beffardo e ironico. Accompagnato dall’inseparabile amico e complice dei suoi omicidi: il coltello. Premio della disputa tra Compadri è sempre la Donna di vita, cioè la prostituta. La terza figura importante è quella del Niño Bien, al quale a volte si associa l’aggettivo patotero, cioè il giovane di buona famiglia legato ai ruoli di potere della città. Non erano armati e non uccidevano nessuno. Tuttavia, spesso, sfidavano i compadritos in risse violente nelle quali sfoggiavano le loro capacità di boxeur.

   Arriva il 1910, il primo anniversario della repubblica argentina, e per le strade di Buenos Aires il popolo festeggia. Il motivo, però, non è solo la festa nazionale, ma una notizia ancora più importante: a Parigi, Londra, Vienna, Berlino e perfino a San Pietroburgo si balla il tango. Se l’essere è l’essere percepito, come dice Berkeley, quel giorno il popolo argentino è avvertito chiaramente dal resto del mondo. Il tango, che trae origine dall’audace e felice milonga, in Europa diventa quello che Ernesto Sabato indentifica come “un pensiero triste che si balla”. Borges non è d’accordo con questa definizione. Il tango non è un pensiero, un’idea, ma qualcosa di più profondo, assimilabile a un’emozione. Inoltre anche l’aggettivo triste desta, nel filosofo argentino, alcune perplessità. La malinconia non appartiene al tango delle origini. La definizione, rivista e corretta, potrebbe essere: un’emozione audace che si balla.

   La versione drammatica del tradizionale ballo argentino ha come protagonista Carlos Gardel.  Borges, dopo averne riconosciuto i meriti, non risparmia aspre critiche. L’ eccessiva malinconia introdotta dal compositore ha completamente stravolto l’essenza dell’anima argentina di cui Borges parla nella quarta conferenza.

   Il tango, infatti, rappresenta per gli abitanti di Buenos Aires un passato immaginario di cui sentano la mancanza. Il ballo è la loro epopea classica, la loro Iliade e Odissea. Quando un argentino ascolta le imprese di un compadre, ripercorre la propria storia e raccoglie la propria eredità culturale.

   “Dunque, nella mia poesia mi domando ancora: dov’è quel coraggio, quella felicità, il mettere alla prova il proprio valore, la sfida verso degli sconosciuti, dov’è tutto questo, così diverso dal nostro tempo? E dico che quei morti vivono nel tango”. Con queste parole Borges, come Ugo Foscolo nel carme “Dei sepolcri” fa con la morte, investe il tango del ruolo di “giusto dispensatore di gloria” (ndr).

   I momenti più piacevoli della lettura sono quelli in cui il filosofo sembra quasi dimenticarsi l’argomento delle conferenze e si lascia trasportare dai ricordi e dall’affetto. Il pensiero per gli amici, soprattutto quelli del periodo giovanile, è vivido. Borges, suo malgrado, deve ammettere che molto spesso siamo abituati a considerare le persone vicine a noi come creature immortali e fuori dal tempo.        

   A riportarci alla realtà, però, interviene sempre il desino. Un monito che ci ricorda quanto infondo quel tempo infinito che pensavamo di avere, anche per rivolgerci una sola domanda, è breve e incerto.

   Misurarsi con i grandi autori è sempre un’esperienza gratificante. Quella di Borges non è una semplice lezione sul tango e sulla sua storia, ma un interessante analisi filosofica e sociologica di un’intera nazione e un’intera epoca. Queste “chiacchierate” offrono al lettore elementi di riflessione e punti di vista con cui analizzare in maniera critica la realtà che lo circonda. Ecco le colonne portanti della letteratura di Borges, a cui si uniscono una profonda chiarezza e una spiccata ironia.

 Jorge Luis Borges, Il tango, Adelphi editore

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