Il tempo per rinascere9 min read

Immagine di Nikiforos Lytras su Wikimedia Commons. Dominio Pubblico

Antigone e l’aurora della coscienza

di Nello Benassi

“Antigone, in verità, non si suicidò nella sua tomba”: così Maria Zambrano apre il suo saggio filosofico-teatrale-poetico dedicato alla figura tragica dell’eroina greca. Il testo è stato scritto dall’autrice negli anni dell’esilio a Cuba. Sarà proprio la lontananza dalla propria terra di origine uno dei fili conduttori della narrazione che porterà la filosofa a istaurare un sentimento di fratellanza e assoluta identificazione con la figura di Antigone.

La prima parte dell’opera può essere definita un saggio attraverso il quale l’autrice prepara il lettore a quello che lo sta aspettando. Il lungo prologo ha quindi come scopo quello di introdurre l’argomento e g:iustificare le scelte della filosofa. La Zambrano soccorre Antigone, abbandonata sul fondo della sua tomba, e non la lascia morire, ma la anima di nuova vita “correggendo” così il finale della tragedia sofoclea. Nella narrazione greca la comparsa della protagonista era troppo repentina, mancava il tempo per la verità. La saggista spagnola si oppone a questo esito, concede all’eroina il tempo necessario a nascere e morire davvero. La tomba passa così da essere luogo di oblio a luogo di vita; metafora dello spazio dove tutto può accadere e in cui la protagonista finalmente accoglie e ascolta se stessa e gli altri.

Il tempo “nuovo” che viene concesso ad Antigone le permette di sciogliere i nodi della sua vita: i legami familiari, la guerra civile, la storia politica. La caverna in cui la fanciulla giace ci riconduce anche al “mito della caverna” di Platone, una costante nella filosofia zambraniana. Qui questo elemento è rivalutato in chiave critica, infatti per la filosofa il passaggio da vaghe apparenze al vero è troppo brusco. Per questo un importante ruolo è svolto dalla “viscere”, dalle sensazioni, che ci permettono di prendere le distanze dalla luce del sapere troppo puro e discendere nell’oscurità della vita, per poi risalire ad una luce più adeguata: la penombra.

Sempre nel prologo la Zambrano si sofferma sul conflitto tragico frutto di guerra e distruzione che solo il sacrificio di Antigone può riscattare, che solo l’aurora della coscienza umana può riscattare. La ragazza è infatti il simbolo della parola che trascende e innalza l’umanità, della ragione e dell’anima, della legge che è superiore a ogni legge e che dovrebbe essere insita all’interno di ogni uomo. Ha inizio poi la seconda parte dell’opera, quella teatrale. Nel primo capitolo, intitolato “Antigone”, la fanciulla è chiusa nella tomba da sola e immersa nell’oscurità in una situazione apparentemente senza alcuna via d’uscita, mentre parla da sola o, meglio, con interlocutori immaginari. A questo punto la ragazza è ormai a conoscenza della propria condanna a non morire. Alla luce di questa scoperta, ripercorre la propria sciagura che le apparteneva già da bambina, per concludere rivolgendosi alla tomba stessa, vista come una culla in cui lei stessa è nata e nascerà.

In seguito ad Antigone viene in soccorso l’immagine della sorella Ismene, direttamente dal suo passato. A differenza di Sofocle, dal testo della Zambrano emerge un rapporto di complicità tra le due sorelle e ci mostra un’Antigone che ha bisogno di Ismene per non tirarsi indietro di fronte al sacrificio che ha scelto di fare. Le due ragazze rimangono comunque due personaggi opposti: Ismene accettava i limiti del mondo, Antígone calpestava invece la “riga”, non rispettava le regole del gioco e continua a fare da tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Dopo il sogno della sorella, l’atmosfera cambia notevolmente e passiamo dal tono aulico a quello ironico. “Ah, allora sei un dio? Sembri più un uomo. Sei un uomo? Sei tu, tu, l’uomo?”. Il suo riferimento all’”uomo” rimanda immediatamente all’indovinello della Sfinge che Edipo era stato capace di indovinare fornendo come risposta, appunto, l’uomo. La sua è tuttavia una sapienza inutile, perché non ha saputo sottrarlo alle sciagure che hanno segnato la sua vita per ripercuotersi poi su quella della figlia.

Partito Edipo, è la volta di una figura femminile importantissima, sebbene assente nella tragedia sofoclea. Stiamo parlando di Anna, la nutrice. Ella soccorre Antigone e ne ricorda soprattutto la sete insaziabile, il suo andare continuamente in cerca d’acqua, preannuncio della sua eterna sete di sapere. La donna non va in visita a mani vuote, porta con sé un rametto di basilico e un po’ d’acqua (simbolo della conoscenza e della memoria). Il rapporto dell’eroina con la nutrice è molto forte, a tal punto che la si può definire come la vera figura materna della vita di Antigone.

Il capitolo successivo è dedicato alla madre Giocasta. Non c’è un vero e proprio dialogo tra Antigone e la madre: l’eroina si limita a invocarne l’ombra. La figura della madre è importante in quanto simbolo di generatrice del passato e quindi di dolore e sofferenza; posta in contrasto con Ismene generatrice del futuro e della “vita nuova”. Il prossimo personaggio a farle visita è la Harpia, altra figura assente nella tragedia sofoclea. Con volto di donna e corpo di uccello, il cui compito è, secondo la mitologia, quello di traghettare le anime agli inferi. Il suo intervento è duro, sincero. La Harpia ricorda ad Antigone che deve approfittare della sua giovinezza, perché non è una condizione eterna, bensì effimera e presto lascerà il posto alla vecchiaia.

Una volta partita Harpia, è la volta dei fratelli. La reazione dei Eteocle e Polinice è polemica e infantile: iniziano a litigare come bambini pronti a rilanciarsi le colpe per farle poi ricadere sulla maledizione del padre. Mentre la sorella invoca la riconciliazione tra i due, i fratelli cercano di portare Antigone con sé via dalla tomba: ma la fanciulla non li segue. Giunge ora Emone, sebbene i due fratelli ancora non siano partiti. Il giovane rimprovera alla ragazza il fatto di non averlo tenuto in considerazione al momento di prendere le proprie decisioni, come del resto non fece Creonte, suo padre, condannando la sua promessa sposa. Anche lui tuttavia, come già i fratelli, chiede ad Antigone di seguirlo affinché rinascano insieme, ma Antigone non segue né lo sposo né i fratelli, vuole rimanere sola sino a quando non potrà davvero riunirsi alla famiglia dopo aver compiuto il suo viaggio di rinascita. Si presenta poi dalla ragazza il tiranno Creonte. Mediocre, intransigente, come nella versione sofoclea, lo zio è l’unico personaggio che merita il disprezzo di Antigone. Preoccupato non tanto per la ragazza, quanto per la propria reputazione e per il figlio morto. Creonte diviene così esemplificazione del desiderio egoistico che oscura la legge insita dentro ogni essere umano: la compassione.

Finalmente Antigone è nuovamente sola come all’inizio del viaggio. Grazie delle visite appena ricevute può finalmente ricostruire la propria storia familiare e quella di Tebe. La ragazza ripercorre in un monologo la condizione dell’esilio al fianco del padre cieco, il suo rapporto con i fratelli, l’amore di Emone, i suoi sogni e i suoi dubbi di ragazza, il gesto della sepoltura di Polinice, Alla fine di questo suo percorso c’è l’amore con il suo invito a seguirlo sino alla luce, alla verità, verso cui Antigone sempre ha teso. Il suo sacrificio, in quanto frutto dell’amore, ha saputo coprire tre mondi diversi: la terra, testimone del suo gesto e della sua condanna, gli inferi come simbolo del desiderio collettivo di luce e vita, e i cieli sede di quegli dèi che hanno concesso ad Antigone di procedere verso la verità dopo averla abbandonata al suo destino. A questo punto entrano in scena gli ultimi visitatori, due sconosciuti. Dopo aver rifiutato gli inviti dei vari personaggi maschili discesi nella sua tomba, finito il tempo che le era stato concesso, Antigone seguirà la figura dello sconosciuto, «perché in ogni sconosciuto può essere riconosciuto un fratello». Antigone può finalmente trapassare.

In ogni sua opera Maria Zambrano si pone il problema di una scrittura con un “io” femminile. In La tomba di Antigone il tema della donna è quanto mai presente. L’opera diventa quindi un’occasione per la filosofa per riflettere sull’identità femminile e sui rapporti uomo/donna, oggetto di tante divergenze nella nostra società. Come ogni donna moderna infatti, Antigone guarda dentro di sé per vedersi vivere interiormente a prescindere dalle imposizioni maschiliste. Questa sua caratteristica fa sì che l’eroina greca sia, secondo Maria Zambrano, in ciascuno di noi, sepolta viva come se fosse la nostra coscienza nascosta.

L’interesse di Maria Zambrano per la questione femminile nasce naturalmente dal suo essere donna e dalla sua esperienza personale: Antigone non fa altro che riassumere il pensiero dell’autrice che, sin dagli inizi della sua carriera, dovette scontrarsi con l’egemonia maschile nel mondo accademico. Per questo la sua fonte di ispirazione sono personaggi femminili come Antigone, ma anche come Eloisa e Diotima. In diretta relazione con l’importanza della figura della donna si colloca il tema della nascita intesa come elaborazione del significato del proprio esistere attraverso la luce della verità. Antigone, col suo farsi aurora della coscienza, diventa qui il simbolo della nascita e della nuova vita. L’autrice crea per lei una fessura in fondo al suo sepolcro, nella cavità più oscura: il raggio di sole che abbaglia Antigone durante il suo primo monologo delirante. Cosi, nel profondo delle viscere, la fanciulla può pervenire all’autocoscienza grazie alla luce che la guida. Vita, nascita e morte hanno un significato particolare nell’opera di Maria Zambrano. Nascere è per lei interrogarsi sul proprio “io”, vivere pertanto non è altro che portare a termine questa nascita ripetendola ogni giorno. L’idea della nascita è resa attraverso la progressiva ascensione verso la luce, simboleggiata dall’aurora. È a essa che gli esseri umani si volgono per destarsi dal sonno alla coscienza della vita.

Come un’Antigone della scrittura, la filosofa spagnola non teme la sperimentazione di un inedito connubio tra due generi solitamente in contrasto e contraddizione: filosofia e poesia. Il saggio filosofico si fonde con il simbolismo poetico, l’aforisma, la guida spirituale e la confessione. Simile a una sibilla, la Zambrano usa un linguaggio pragmatico, capace di tradurre le immagini in parole che trasmettono qualcosa di divino. “La tomba di Antigone” non ha una reale struttura drammatica in sé, com’era invece il caso dell’Antigone di Sofocle, il cui scopo finale era la rappresentazione dell’opera in questione. La Zambrano, al contrario, si preoccupa dei lettori e non pensa al pubblico udente e vedente come ogni scrittore di teatro. Prova ne è il fatto che, pur essendo chiaramente indicati i personaggi e le rispettive battute, manca, nel testo dell’autrice spagnola, ogni riferimento alla messinscena: spostamenti, descrizioni della scenografia o dei personaggi, reazioni diverse da quelle espresse verbalmente. L’intento è probabilmente quello di non distogliere l’attenzione dalla parola e dalla voce cui essa è indissolubilmente legata.

La parola è appunto la chiave della sua filosofia, strumento indispensabile per esternare gli elementi più profondi degli individui. È attraverso la parola che ogni uomo può scavare dentro il proprio animo alla riscoperta di sé e far risplendere l’essenza dell’“io” nella luce dell’aurora.

M. Zambrano, La tomba di Antigone, Piccola Enciclopedia (SE), 2014

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