Jane si era presa un gatto4 min read

di Rebecca Giusti

Jane si era presa un gatto. Era carino, un po’ anaffettivo ma sorrideva come un umano: inclinava il muso e mostrava i denti come un diavoletto.

Jane credeva che così si sarebbe sentita meno banale. Solo dopo essere arrivata al gattile in uno spoglio quartiere autunnale (era estate, ma quel quartiere aveva un’aria perenne di ottobre dentro di sé), si era accorta che tutti i suoi conoscenti avevano un gatto. Jane si era sentita ancora più banale. Banale perché aveva pensato di poterlo non essere agendo come tutti gli altri, sguazzando e muovendosi scomposta per uscire dalla folla per finire ad ondeggiare e crogiolarsi soddisfatta nella banalità, pensando di essere arrivata sulla sponda dell’isola giusta, che finalmente l’avrebbe staccata da quella uniformità fluida: un posto sicuro a cui tutti sembravano aspirare, non vedevano l’ora di naufragare per raggiungere quel posto deserto, irreale e troppo sfuocato per accogliere anche più di una persona.

Lei aveva un gatto, quindi ormai erano in due. Il gatto e Jane non potevano arrivare entrambi sull’isola, perché se già lei stessa era troppa per quel luogo, addirittura portare il diavolo sorridente era impensabile. Jane pensava che chi non si sentiva banale perché stava con un qualcosa che non lo era, era l’apoteosi di quello che lei rifuggiva affannata.                          

Jane tornava a casa con la macchina: un furgone da primadonna, anche se lei non si definiva tale. Jane viveva in un condominio in un quartiere primaverile, con simpatiche signore (in realtà non sapeva se lo fossero perché in quindici anni che viveva in quel luogo le aveva solo viste filare) e fiorellini stantii che sembravano finti, perché non si sa per quale legge scientifica riuscivano a rimanere vivi anche durante il freddo inverno che dai quartieri accanto (quelli con l’inverno dentro) si spostava fino alle aiuole da quelle parti.

Jane salutò Mary. Salutò un tipo che non conosceva ma che le aveva sventolato beffardo la mano davanti. Jane teneva in mano la portantina con una mano e l’altra la teneva in tasca, c’erano dei fazzoletti usati qualche giorno prima e delle perline di un braccialetto costoso che le si era rotto, ed erano ormai due annetti che si riprometteva di farlo aggiustare.

Jane entrò in casa e il gatto cominciò a guardarsi intorno stranito, forse avrebbe preferito dormire sulle sfondate poltrone di pelle delle anziane che aveva intravisto dalle sbarre di alluminio della cuccetta portatile, loro avevano l’aria di quelle donne paffute che riempiono la ciotolina del mangiare fino all’orlo e non si fanno problemi se qualche croccantino esce fuori.

Forse avrebbero riso troppo. Mentre Jane pensava a cosa potesse pensare quell’animaletto spaurito che sembrava fosse sul punto di svenire, si accomodò su una sedia in soggiorno. Lo guardava ma non sapeva come dirgli di stare tranquillo, che non era una malintenzionata, ma che facesse pure svanire le sue speranze perché non era neanche una moglie cicciona che fa risate sonore e rimpinza chiunque gli capiti a tiro, perché Jane aveva comprato quell’affare per non sentire più il suo vuoto, non per trovarsi accanto un figlio da sfamare.                                                                      Jane cominciò subito a pensare ad altro, si fece trascinare dalla corrente e arrivò a rimuginare sulla sua adolescenza da cui aveva appena messo un piede traballante fuori. Non era stata una brutta vita, solo semplici vent’anni che fanno tutti. Ora riporterò un flusso di pensieri di Jane, perché non voglio avere la funzione del mediatore, magari potrei capire male ciò su cui riflette e farvi fraintendere anche a voi: avrebbe voluto tornare a quand’era spensierata. Probabilmente le persone facevano la guerra per evitare di morire senza aver fatto niente, oppure perché la pace gli faceva schifo. Non avrebbe voluto essere muta. Quant’era brutta quella festa a cui era andata a diciassette anni. C’era troppa musica, lei non poteva cantare e tutto quel frastuono le dava estremamente noia all’udito. Nessuno sapeva il linguaggio dei segni, quindi fu costretta a scrivere sul muro della casa del malcapitato (non lo aveva mai conosciuto, le dispiaceva per lui) ad un altro ragazzo che voleva una coca. Non c’era quindi aveva bevuto denso e caldo vino rosso.

Con quel ragazzo era diventata amica, ma ora che si era trasferita le mancava terribilmente.

Si svegliò due ore dopo con i capelli avvolti in mille nodi. Il gatto si svegliò con lei perché le si era acciambellato ai piedi e cominciò a fare delle sonore fusa attorno alle magre gambe di Jane. Lei lo prese in braccio con la paura di romperlo e gli disse con le mani: “Sei carino diavoletto. Che ne dici di diventare amici? Sono un po’ disperata adesso, ma è una domanda semplice ed ora ho tanto bisogno di una risposta.” Il gattino fece uno strano movimento con le zampe. Nella lingua dei segni significava: sì.

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