L’arte della guerra nello spirito della storia per Hegel20 min read

 

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di Michele Puccini

Luglio 1937, in piena esposizione universale di Parigi, alla vigilia dello scoppio della Seconda guerra mondiale c’è chi, nonostante i regimi totalitari stiano provando i loro eserciti su vari “banchi di prova”, come la Spagna, al fine di aiutare la nascita di  formazioni politiche filo-fasciste, non si fa bloccare da come la situazione sta tragicamente evolvendo verso lo scoppio del conflitto vero e proprio. L’arte in tutte le sue forme, essendo di per sé movimento o rappresentazione di movimento, non può mai stare ferma o essere fermata, come neppure il genio o lo spirito, quest’ultimo in continua progressione verso la storia, proprio come direbbe Eraclito o un “erede” della sua saggezza, un grande filosofo tedesco. Tra questi geni spicca Pablo Picasso.
Picasso nacque a Malaga nel 1881 ed è stato uno dei più grandi, se non il più grande artista del XX secolo. Il pittore, riduttiva come etichetta per un artista totale come lui, un vero e proprio “hombre vertical” per utilizzare l’epiteto con cui in Spagna vengono definiti personaggi del suo calibro, presenta, a inizio lavori dell’expo nel maggio dello stesso anno, l’opera per cui forse è maggiormente conosciuto in tutto il mondo, il Guernica. L’imponente raffigurazione è stata prodotta nel giro di poco meno di due mesi, un qualcosa di impressionante per una tela di quelle dimensioni, ricca di dettagli e particolarità. Ma ciò che ci interessa a noi non è tanto il quadro quanto più il suo pubblico. Gli storici del tempo affermano che durante il periodo concitato una donna dell’alta borghesia spagnola, dall’aspetto distinto e quasi dorico da tanto che non lasciava trasparire alcuna emozione osservando il dettaglio posto in basso a destra del quadro scoppia in un pianto forte e disperato, l’opera l’ha avvolta e si sente coinvolta, protagonista della scena, del dettaglio, che a primo impatto fra le forme e i colori del quadro può sfuggire ma che a un’anima dolce e sensibile non può scappare: quella della madre che piange il figlio morto.
Proprio come lei neppure la Signora potrà più riabbracciare iagazzo in quanto caduto durante la Prima Guerra Mondiale. Le atrocità prodotte dalla guerra non sono un tema nuovo per nessuno e anzi, basta accendere un comune telegiornale e osservare le immagini che ci vengono proposte di Gaza o del Donbass per renderci conto di quanto questa scena sia attuale e viva nella nostra società. La sofferenza, pensiamo tutti, è davvero un qualcosa di forte e penetrante. Le Vittime della circostanza. Il dipinto del “Guernica” di Pablo Picasso (1937) è un’opera emblematica contro la guerra e un potente simbolo del dolore e della distruzione causati dal bombardamento della città basca durante la Guerra Civile Spagnola. La scena della madre con il figlio morto, situata sulla sinistra del dipinto, è uno dei dettagli più toccanti e angoscianti dell’opera. La madre, rappresentata con linee spezzate e angoscia viscerale, grida al cielo mentre stringe il corpo inerte del suo bambino. Questo gesto evoca la disperazione di ogni genitore che perde un figlio in guerra, trasformando un evento particolare in un’immagine universale della sofferenza. Il suo volto deformato dall’urlo di dolore sembra annullare il confine tra umano e disumano, mostrando come la guerra corrompa anche le esperienze più intime e sacre, come l’amore materno. Picasso, attraverso un linguaggio visivo, frammenta le figure e distorce lo spazio, creando una realtà spezzata che rispecchia l’orrore della guerra. L’assenza di colori vivaci, limitata al bianco, nero e grigio, accentua la gravità della scena, richiamando la freddezza e la spersonalizzazione della violenza moderna.
“Guernica” non è solo un’opera d’arte, ma anche un appello etico. Rappresenta il rifiuto dell’accettazione passiva della violenza e un invito a costruire una cultura di pace. La scena della madre con il figlio morto, così come tutto il dipinto, ci ricorda che la guerra non è solo una questione politica o strategica, ma una tragedia umana. Picasso ci invita a guardare oltre la superficie, a comprendere le radici del conflitto e a lavorare per un futuro in cui immagini come quelle di “Guernica” non siano più necessarie. Questa riflessione rende l’opera straordinariamente attuale: in un mondo ancora segnato da conflitti e violenze, “Guernica” rimane un simbolo della necessità di preservare la vita e la dignità umana sopra ogni altra cosa. Ma che cos’è davvero la guerra oltre caos e distruzione? E perché la si combatte? Per rispondere a queste domande bisognerebbe aprire un infinito capitolo infinito sull’uomo e sulla società che lo circonda e che dovrebbe trattare di teologia, storia, filosofia, economia, politica e geografia ma purtroppo l’essere umano è un qualcosa di finito, proprio come sosteneva Hegel, motivo per cui siamo costretti a lasciare un enorme interrogativo dietro queste domande.
Quello che è certo è che la Guerra viene combattuta fin dall’Antichità infatti già gli uomini del paleolitico lottavano tra loro per il controllo dei banchi di prede o per il possesso di utensili di migliore fattura. Successivamente con lo stanziarsi della civiltà e la formazione di strutture gerarchiche più complesse che hanno portato alla formazione di società piramidali gli uomini combattevano l’uno contro l’altro per raggiungere il vertice della società e per far sì che la loro civiltà dominasse sulle altre.
Guerre più grandi si hanno poi con l’espansione assira, egizia o ittita. L’uomo ha iniziato a fare la guerra quando, con l’evoluzione delle società, le risorse limitate
come terra, cibo e potere hanno scatenato conflitti tra gruppi. Inizialmente combattuta con strumenti rudimentali, la guerra è nata come mezzo di sopravvivenza e difesa, ma presto è diventata uno strumento di conquista e dominio, trasformandosi in una delle espressioni più antiche e distruttive della natura umana.
Oltre al suo costo umano e materiale, la guerra solleva profonde questioni morali. È giusto uccidere per difendere una nazione o un ideale? Quali sono i limiti accettabili per la violenza in un conflitto? Questi dilemmi hanno portato alla nascita di concetti come la “guerra giusta” e il diritto internazionale umanitario, volti a regolamentare i comportamenti durante i conflitti. Tuttavia, la realtà mostra che tali norme sono spesso ignorate, lasciando spazio a crimini di guerra, genocidi e altre atrocità.
La guerra ha anche un impatto sociale profondo, contribuendo a plasmare le identità nazionali, culturali e politiche. In molti casi, i conflitti hanno accelerato i cambiamenti sociali, portando a rivoluzioni, redistribuzione di potere e trasformazioni economiche. Tuttavia, questi cambiamenti avvengono a un costo altissimo, spesso lasciando dietro di sé cicatrici durature nelle società coinvolte.
Quello che è certo è l’antichità di questo impulso di scontro, violento, presente nell’uomo, che, come direbbe Kant, si presenta come un “male radicale”. Se inizialmente la guerra era vista come una lotta per la sopravvivenza oggi è quindi una lotta per il potere, come quella per i semiconduttori. Il modo in cui esse si combattono sappiamo poi oggi che si è evoluto con l’avvento di Internet e con lo sviluppo tecnologico, presente sempre nel Guernica che ha come simbolo la famosa lampadina. Oggi, infatti, si può parlare di guerra chimica, nucleare, batteriologica, cyber e biologica. Le due guerre mondiali, pur essendo eventi distinti, sono il culmine di una lunga storia di conflitti che si intrecciano con le dinamiche primordiali della natura umana, come la lotta per le risorse, il potere e la supremazia. Questi conflitti uniscono quanto detto finora, quindi, non sono solo il frutto di cause contingenti, ma derivano da una serie di processi storici, economici e sociali che hanno caratterizzato l’evoluzione delle società umane. A partire dal XIX secolo, con l’industrializzazione e l’espansione coloniale, le grandi potenze imperiali d’Europa si sono lanciate in una corsa per il dominio globale, espandendo i loro territori e influenze. Queste ambizioni imperialiste hanno aumentato le tensioni tra le nazioni, creando un contesto volatile dove il conflitto era sempre più una possibilità concreta. La Prima Guerra Mondiale (1914-1918) è una manifestazione di queste dinamiche di potere. Le cause immediate possono essere ricondotte all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e alla reazione a catena che ne è seguita. Tuttavia, la guerra è stata anche il risultato di un accumulo di tensioni legate alla lotta per il dominio politico, economico e territoriale in Europa. La Germania, che aveva cercato di espandersi sia in Europa che nelle colonie, fu punita severamente dal Trattato di Versailles, che la costrinse a pagare enormi riparazioni di guerra e le impose pesanti limitazioni territoriali e militari. Questa umiliazione suscitò un risentimento profondo che avrebbe trovato sfogo negli anni successivi, favorendo l’ascesa di Adolf Hitler e del regime nazista, che si nutrivano di idee nazionaliste e revisioniste. Questa guerra nonostante avesse trovato dei vincitori, portò a tragiche conseguenze nello scenario mondiale. La crisi economica globale del 1929, che colpì duramente l’Europa e gli Stati Uniti, aggravò ulteriormente la situazione, portando alla disoccupazione e alla povertà, e creando terreno fertile per movimenti autoritari e fascisti, che sfruttavano il malcontento popolare per giustificare politiche di espansionismo e militarizzazione. La Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) è la risposta a un conflitto non risolto, alimentato da desideri di vendetta, suprematismo e vendetta. Il regime nazista in Germania, insieme all’Italia fascista di Mussolini e al Giappone imperialista, nutriva ambizioni di espansione territoriale. Hitler, in particolare, aveva un piano ben preciso: rivedere i confini stabiliti dal Trattato di Versailles, annientare la “razza inferiore” (in particolare gli ebrei) e creare un vasto impero tedesco in Europa. La guerra, quindi, diventa l’espressione del desiderio di potere assoluto e di dominio su altri popoli, fondato su ideologie razziste e nazionaliste. Detto ciò, possiamo affermare che le due guerre mondiali non sono eventi isolati, ma il risultato di un processo evolutivo in cui la violenza e la guerra si sono evolute con la società umana. Tutte quante però si manifestano come un impulso costante impresso da quella guerra primordiale che è intrinseca nello spirito del popolo (Volksgeist) Hegeliano. Come accennato prima nel video il pensiero di Hegel, distaccandosi dai suoi predecessori, ha segnato un’epoca. Il pensiero hegeliano si articola e si sviluppa attorno ad alcuni principali concetti. Per Hegel il finito si articola e si risolve nell’infinito. Secondo questa visione la realtà è un organismo unitario e non è costituita da tanti piccoli frammenti separati. Questo implica forzatamente che per comprendere il mondo che ci circonda bisogna osservare i fenomeni nella loro interezza; infatti, essi non sono altro che espressioni parziali dell’infinito, quindi di Dio, con Hegel si parla infatti di Monismo Panteistico.

Con Hegel si arriva inoltre alla deduzione che l’assoluto è un soggetto spirituale, in costante divenire, di cui tutto ciò che esiste ne è momento, quindi frammento. La realtà non è altro che il processo di autoproduzione che solamente con l’uomo, lo spirito, e le sue attività più alte quali l’arte, la religione e la filosofia giungono al loro compimento.

“Vero è l’intero, ma l’intero è solamente l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’assoluto devesi dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità” (Hegel, tratto da “Lo Spirito dei Popoli”).

È in questa totalità processuale che si sviluppa un’articolazione triadica e circolare costituita dalla tesi, l’idea in sé, l’antitesi: l’idea fuori di sé che consiste nell’alienazione dell’idea nelle realtà spazio-temporali di mondo e natura e la sintesi: l’idea che torna in sé dopo essersi fatta natura acquisita in coscienza di sé nell’uomo. Nella filosofia hegeliana la razionalità non è pura idealità, astrazione, dover essere, ma la forma stessa di ciò che esiste. La ragione governa e costituisce il mondo. Al tempo stesso la realtà non è esclusivamente materia sensibile ma lo svilupparsi di una struttura razionale.

Questa struttura razionale si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo consapevole nell’uomo, in quanto dotato di anima e coscienza. Si parla perciò di panlogismo: ciò che è  anche ciò che razionalmente deve essere. Il mondo è razionalità dispiegata ovvero ragione reale e realtà razionale che si manifesta attraverso una serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. La realtà è dunque una totalità processuale necessaria formata da una serie di momenti ciascuno dei quali rappresenta il risultato di quelli precedenti e il presupposto di quelli seguenti. La filosofia è quindi “Bildung”, termine tedesco per indicare la costruzione o, meglio, la formazione di strutture razionali che sopraggiungono dopo le esperienze passate.

La filosofia non determina quindi la realtà, nemmeno la guida. La filosofia ha come autentico compito la giustificazione razionale di essa. Non si tratta però di una banale accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti; infatti, Hegel esclude dall’accezione filosofica di realtà, detta WIRKCLICHKEIT, gli aspetti superficiali o accidentali dell’esistenza immediata.È altrettanto assurdo, oltre che doveroso opporsi alla visione, secondo cui Hegel sia il classico studioso del XVII o del XVIII secolo, chiuso nella sua biblioteca e che guarda, con anche un certo senso di superiorità, distaccato il mondo che lo circonda. Egli, infatti, è stato un intellettuale completo e dal bagaglio personale vastissimo, dimostrando di avere anche una vera e propria passione per l’arte e la spiritualità. Indubbiamente malgrado appartenessero a due periodi totalmente diversi un uomo del suo calibro avrebbe indubbiamente riconosciuto la veridicità del messaggio dell’arte di Picasso, infatti, la guerra è un qualcosa tanto inevitabile quanto cruento e distruttivo. L’ arte diventa quindi il primo gradino attraverso cui lo spirito acquista coscienza di sé. L’arte conosce lo spirito assoluto nella forma dell’intuizione sensibile. Il Guernica rende questa idea perfettamente. È una forma di conoscenza, non ha un ruolo di intrattenimento, di svago o di evasione illusoria. Attraverso l’arte si ha l’intuizione sensibile dell’unità di soggetto e oggetto, spirito e natura, la natura diventa una manifestazione dello spirito.

Nell’esperienza del bello artistico spirito e natura sono recepiti quindi come un tutt’uno. Per quanto per via delle forme e dell’eccesso di materia l’opera sarebbe potuta risultare di dubbio gusto, essa avrebbe stimolato in lui un’ampia riflessione sulla guerra. “Lo spirito che è nella storia è un individuo di natura universale, ma determinato: cioè in generale è un popolo”. (Hegel, “Lo Spirito dei Popoli”).La Guerra diventa quindi uno dei mezzi con cui si realizza il Volksgeist, cioè questa forza motrice della storia. In una visione quasi provvidenziale, e su certi aspetti anche Manzoniana, essa serviva per compiere la volontà di autodeterminarsi. La proposta “pacifista” di Kant si fonda, quindi, in questa visione, su un presupposto errato: il non riconoscere una strutturale e ineliminabile differenza tra l’ambito del «diritto statuale interno, dove i conflitti tra individui possono e devono essere risolti con mezzi legali, essendo stato costituito un potere comune e un monopolio della forza, e l’ambito del «diritto statuale esterno» o internazionale nel quale le controversie tra i singoli Stati possono essere legittimamente risolte anche con la forza, ogni volta che la diplomazia fallisca. Questa differenza tra sfera “interna” e sfera “esterna” allo Stato, in qualche modo è riconosciuta anche da Kant e per Hegel è una condizione “necessaria”. Per quanto moralmente discutibile, la guerra è una forma di autodifesa “legittima” e “naturale”, alla quale ogni Stato, in assenza di un potere sovranazionale che ne limita i diritti, può e deve ricorrere.

Del resto, l’ideale kantiano di una «federazione di Stati Europei, capace di dirimere le controversie internazionali, è un buon proposito morale, ma non può trovare fondamento nella realtà dei fatti, dal momento che qualunque organismo “superiore” a quello statuale sarebbe a sua volta l’espressione di «volontà sovrane particolari», e dunque non farebbe che riproporre, sebbene a un livello più alto, il problema dei rapporti internazionali. Hegel dice espressamente nei “Lineamenti della Filosofia del Diritto” : “Non c’è alcun pretore, al massimo vi sono arbitri o mediatori tra Stati, e anche questi lo sono in modo soltanto accidentale, cioè secondo volontà particolari. La concezione kantiana di una pace perpetua grazie a una federazione di Stati, la quale appianasse ogni controversia e, come un potere riconosciuto da ciascun singolo Stato, componesse ogni discordia, e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia degli Stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità.” Sorge spontaneo allora chiedersi chi sia il “giudice” o l’”arbitro” delle contese tra Stati? La risposta risulta ovvia: lo “spirito del mondo”, cioè la storia in cui gli Stati nazionali nascono, crescono e con cui si urtano violentemente, e che in base agli esiti di questi scontro ci fa comprendere chi sia il vero vincitore e lo sconfitto. Nella prospettiva realistica la guerra non solo è inevitabile, ma, in certa misura, è anche benefica, configurandosi come un male necessario, ossia come “un bene-mezzo per il raggiungimento di un bene-fine”. Quest’ultimo è il progresso morale e civile dei popoli. Sempre dai “Lineamenti della filosofia del diritto” leggiamo: “La guerra ha il superiore significato che grazie ad essa la salute etica dei popoli viene mantenuta nella sua indifferenza di fronte al rinsaldare delle determinatezze finite, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole. come i popoli da una pace durevole o addirittura perpetua.” In quanto fuoco rigeneratore e incendio che distrugge e purifica, la guerra simboleggia la forza stessa della dialettica e dello spirito universale, che travolge e “consuma” il finito in vista della realizzazione di una sempre maggiore libertà, simboleggiando nei fatti la sua idea di costante creazione di nuove triadi la cui sintesi è data da tesi antitesi. Tutto questo percorso, se privato del vero messaggio che l’arte e la filosofia ci propongono rischiamo diventi vuoto, privo di significato e limitato. Ad oggi non possiamo non sentirci coinvolti dalle parole del filosofo tedesco. Per quanto l’idea kantiana di confederazione in molte parti del mondo sia realtà essa non si è pienamente realizzata all’interno dell’Europa e spesso i rapporti fra gli Stati si rivelano, malgrado gli enti preposti a tutelarli, deboli e fragili, appesi su fili che vengono scossi dai luoghi comuni, dai nazionalismi e dagli interessi di piccole parti. Spesso è proprio questa frammentazione che mina e blocca lo sviluppo dell’Europa come superpotenza e blocco a sé stante, capace di imporsi autonomamente nel panorama mondiale. Se osserviamo la situazione dal 1945 ad oggi è facile notare come l’Europa non sia più stata l’attore protagonista sul panorama mondiale ma subordinata ad altri colossi quali Cina, USA e prima URSS e oggi la Federazione Russa. I singoli conflitti che causano tensione e fanno pressione sul vecchio continente si rivelano davvero una triade di sintesi, tesi e antitesi in quanto nuovi popoli, emergenti, seguono il “richiamo” del Volksgeist e si spingono verso la completa realizzazione della loro autonomia proprio come noi abbiamo fatto per secoli. Molto triste è constatare come questo richiamo non stia più toccando le coscienze e le anime dei cittadini europei che se prima erano i veri protagonisti e di fronte a scena come quelle di Guernica non rimanevano indifferenti oggi invece finiscono per restare impotenti e insofferenti di fronte a decisioni prese da terzi su scelte geopolitiche globali. E’ altrettanto vero però che la forza e il vero splendore dell’Europa in parte è stato proprio questo: in una lingua di terra che costituisce uno dei più piccoli continenti troviamo una diversità umana e culturale vastissima, dalle culture nordiche a quelle mediterranee, spaziando dalle architetture più severe come quelle franco-prussiane a quelle più vicine al mondo arabo e greco come quelle del Sud Italia. Sono stati proprio i contrasti e la forte competizione per il dominio dell’Europa e del mondo che hanno portato sì allo scoppio di atroci guerre ma anche al progresso industriale, tecnico, scientifico e artistico. Sempre in Europa abbiamo inoltre avuto la nascita di alcuni degli ideali più atroci del XIX e del XX sec. ma al tempo stesso il germe del seme di queste idee non poteva trovare radice se non in un territorio intellettualmente già florido e che garantisse una discreta libertà di pensiero ed espressione. Partendo dai conflitti già mostrati nella cartina come quelli in medio-oriente osserviamo proprio questo annichilimento del Volksgeist e questa separazione dei singoli Stati all’interno dei vari blocchi, siano essi la NATO o UE. Un tempo, l’interventismo in ambito internazionale e la creazione di colonie o stati satellite era motivo di orgoglio e fierezza per i singoli cittadini mentre oggi ciò non lo è più anche se li tocca e li coinvolge sotto svariati aspetti.Uno Stato che domina o assoggetta Stati minori, seguendo le logiche di successori di Hegel come Ratzel o Haushofer, è anche uno Stato che diventa meno suscettibile alle variazioni dei prezzi e ai limiti e alla difficoltà che il mercato pone poiché disponendo di enormi quantità di materie prime si trova in condizioni commerciali più agiate. Paesi come l’Inghilterra del XVIII sec. o come la Francia odierna sono il perfetto esempio dei risultati positivi che ha portato loro questo tipo di guerra e la fierezza dei loro cittadini nel loro passato militare ed espansionistico ne è la dimostrazione evidente. Chiaramente, questo discorso non tiene conto degli abusi e delle torture che queste Nazioni hanno fatto verso le popolazioni autoctone delle colonie e nemmeno delle condizioni di arretratezza che esse vivono tutt’oggi per causa loro ma altrettanto vero ed inevitabile è che ogni guerra vede da un lato un vinto e dall’altra un vincitore e il bilancio di essa è visibile soltanto a conflitto terminato e talvolta nel lungo termine. Unendo la mappa e la linea del tempo è facile notare che i Paesi che hanno risentito maggiormente dell’inflazione e della stagnazione del 2022 sono proprio quelli maggiormente dipendenti da altri Stati e il cui popolo si è storicamente scarsamente interessato alle vicende politiche Nazionali o Internazionali, come ad esempio l’Italia. La lievitazione dei costi delle bollette e delle risorse come il carburante e il gas metano fu dovuta principalmente allo stop delle forniture da parte della Russia causato dall’aggravarsi della situazione ucraina; la situazione sarebbe potuta essere facilmente aggirata se, seguendo lo spirito di un popolo desideroso di crescere e progredire avessimo investito a livello Nazionale su altre alternative come le energie già disponibili nel nostro Paese, sui giovani e sulla ricerca nel settore, sulla diversificazione dei vari approvvigionamenti da parte di altri Stati.

Ma come dice Hegel “l’unica cosa che impariamo dalla storia è che l’uomo non impara dalla storia” e finisce per commettere gli stessi errori non a caso, anziché procedere con riforme strutturali e lungimiranti ci stiamo nuovamente avvicinando, come Nazione, come Unione Europea e come membri dell’Alleanza Atlantica, a regimi oppressivi propri delle teocrazie o delle monarchie assolute a carattere islamico del mondo arabo commettendo nuovamente lo stesso errore fatto nel 2002 con la Russia.La guerra quindi, purtroppo, laddove la mediazione internazionale fallisce diventi quindi l’unico davvero efficace al fine di tutelare la democrazia occidentale. La nostra stessa Costituzione riconosce che, nonostante l’Italia ripudi la Guerra come strumento di offesa verso la libertà di altri popoli, la riconosce come mezzo che può essere necessario per salvaguardare la stessa in caso di offesa ricevuta o attacco subito. Inoltre, come già riportato nei conflitti antecedenti, la guerra fu un mezzo necessario al fine di realizzare la nobile causa di estirpare il male radicale che si era insediato in Italia e in Germania tra il 1939 e il 1945. Se ci fossimo limitati a seguire la linea dell’appeasement oggi vivremmo un’Europa molto diversa, figlia di una lunga e buia notte vissuta. Soltanto unendoci sotto un’unica bandiera, proprio come proponeva Kant, mossi dai nobili sentimenti di Hegel, potremmo sperare di tornare a progredire come civiltà e come Nazione e su modello dei nostri nonni e bisnonni che dal niente hanno ricostruito un Paese martoriato dalle piaghe della guerra potremo tornare a progredire come popolo. Il solo credere che la storia e con essa il Volksgeist sia finita ed esso sia morto implica forzatamente il crollo di un Paese se non addirittura dell’intera civiltà. Il declino dell’Occidente diventa quindi il declino della sua forza espansionistica, presente nello spirito dei popoli hegeliano, e sul declino del concetto di benessere generalizzato su cui esso si fonda da secoli, rendendo così la filosofia del genio di Stoccarda un qualcosa di estremamente tagliente, attuale e concreto nei confronti del mondo che viviamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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