Per una libertà senza flagelli13 min read

La Peste di Albert Camus

di Elena Betti

   Ho appena finito di impegnare il mio tempo nella maniera che al momento mi sembra la più proficua, leggere. Ho finito il primo libro di questa quarantena ma stranamente, a differenza del solito, non sento il forte senso di vuoto che lascia la fine di un libro, e purtroppo so il perché.

    Il libro in questione è La Peste di Albert Camus. La domanda sorge spontanea: come mai mi voglio così male da leggere un libro che parla di un’epidemia in questo periodo? Ebbene, penso di averlo fatto per curiosità, la curiosità di capire quanto l’affermazione “la storia tende a ripetersi” sia vera.

   La Peste è un libro scritto nel 1947 e pubblicato poco dopo. La storia si svolge nella città algerina di Orano, 200.000 abitanti, in cui un giorno di primavera i cittadini cominciano a notare sempre più topi morti per le strade fino ad arrivare a picchi di 6000 topi in un solo giorno, e nonostante questo nessuno dà realmente peso alla cosa. La situazione infatti si placa senza che i cittadini si siano mai minimamente allarmati. Il problema è che, dopo i topi, cominciano a morire le persone con lo stesso ritmo.

   Da qui in poi il libro descrive per almeno 200 pagine molti degli atteggiamenti che possiamo tranquillamente leggere sui giornali di oggi o ascoltare al TG.

   Mi voglio soffermare proprio su questi aspetti più che sulla storia in sé.

   Già nelle prime quindici pagine infatti troviamo spezzoni in cui traspare la stessa confusione in cui tutti noi eravamo immersi quando il virus ha iniziato a diffondersi a Wuhan e la stampa parlava solo di una particolare forma influenzale un po’ più forte del normale. Nel libro, infatti, si legge: “la stampa si pettegola nella faccenda dei sorci, non parlava più di nulla. Gli è che i sorci morivano per strada e i gli uomini nella loro camera; e i giornali non si occupano che della strada.” I medici di Orano, e in particolar modo il protagonista, il dottor Bernard Rieux, avevano capito subito che si trattava di un’epidemia, ma prima di usare la parola “peste” passano settimane, questo perché si voleva evitare di creare falsi allarmismi nei cittadini. Non suona nuovo vero?

   Lentamente, e cercando di creare meno allarmismo possibile, la prefettura aveva acconsentito a mettere in atto norme di prevenzione per limitare il più possibile l’espansione dell’epidemia. Per comunicare ai cittadini che sarebbero state chiuse le porte della città di Orano, bloccati i treni e le navi, vennero affissi dei cartelloni negli angoli meno in vista della città.

    A pagina 48 della mia edizione viene espressamente detto che le misure del decreto erano insufficienti e che le persone ancora non si erano rese conto della situazione in quanto la stampa si ostinava a parlare di una malattia un po’ pericolosa, ma nulla di allarmante. Già, il flagello sembrava fosse un problema solo per i morti. Il resto dei cittadini continuava a vivere la propria vita: “continuavano a concludere affari a preparare viaggi, avevano delle opinioni.” Non potevano pensare alla peste, questo li avrebbe resi meno liberi di pensare al futuro, ma “nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli”.

    I morti cominciarono a crescere in maniera esponenziale: in tre giorni si riempirono due padiglioni e dovettero creare un ospedale ausiliario in una scuola elementare. Iniziò ad essere obbligatoria la denuncia dei malati, il loro isolamento e la quarantena per i familiari. Con la chiusura delle porte della città i cittadini cominciarono a capire cosa significasse il vero isolamento, molti erano rimasti separati da persone che erano uscite dalla città prima della peste ed altri avevano avuto la sfortuna di trovarsi lì in villeggiatura, come il giornalista Rambert. Chiudendo le porte della città così in fretta, la prefettura non aveva avuto il tempo di considerare tutti i casi particolari che rimasero infatti inascoltati nonostante le molte richieste.

   A questo punto del libro nasce in noi lettori del 2020 la prima consolazione: infatti, a causa dei sovraffollamenti ai telefoni pubblici e la complicata comunicazione tra la città e il resto del mondo, ai cittadini venne negata la possibilità di scrivere lettere, che sarebbero potute essere veicolo del contagio, o telefonare ai propri cari che erano rimasti fuori dalla città. Questo provocò in loro una più forte sensazione di prigionia, perché furono costretti a pensare al loro passato, e se anche alcuni di loro avevano “la tentazione di vivere nel futuro, vi rinunciavano rapidamente, provando le ferite che la fantasia finisce con l’infliggere a coloro che hanno fiducia in lei’, erano ‘ impazienti del proprio presente, nemici del proprio passato e privi del futuro”: la peste aveva tolto loro la facoltà di amare, perché l’amore richiede un po’ di futuro e a loro erano rimasti solo attimi.

   Alla terza settimana i morti erano 302, poi 320 e alla quinta 340, ma le persone ancora non se ne preoccupavano, del resto non sapevano quante persone morissero normalmente alla settimana, e continuavano a trovarsi nei bar a conversare e a distrarsi. Il lettore vede l’aria della città modificarsi in prossimità dell’arrivo dell’estate, quando i cittadini, delusi dalle promesse del calo dei contagi con l’arrivo del caldo, sentono sempre più forte il senso d’imprigionamento “sotto il coperchio del cielo”; sentono che la reclusione minaccia la loro vita, cominciano a capire la serietà della situazione. In mezzo al caldo estivo e al silenzio delle strade tutto cominciava ad assumere una maggiore importanza, dai colori del cielo, ai profumi delle stagioni, alle rondini non cantavano più, e non sarebbero stati i colori dell’estate a portare conforto a Orano.

   Per tenere i cittadini informati del progresso dei contagi venne creato il Corriere dell’epidemia, che inizia ad essere venduto alle sei di mattina, orario in cui cominciano a crearsi le file davanti ai negozi, gli uni distanziati dagli altri, come noi oggi al supermercato. Nelle botteghe scarseggiano le merci, nei bar bisogna portare lo zucchero da casa e scarseggia il caffè, le persone sono sempre più restie a prendere il tram e se lo fanno si danno le spalle come se in questo modo potessero essere immuni dal contagio.

   Anche a Orano si presentano i problemi di una complicata organizzazione sanitaria: ci si rende conto che di lì a poco i medici saranno superati dagli avvenimenti e mancheranno di tempo e uomini, oltre che di materiale, come noi manchiamo dei ventilatori e di sale per la terapia intensiva. Molti si rendono disponibili a creare squadre di volontari che collaborano nell’ospedale ausiliario e nei campi di isolamento creati nelle scuole, negli alberghi e nello stadio. I medici cominciavano a morire, ma nonostante questo durante tutta l’epidemia non mancarono mai uomini pronti a farsi carico di questo mestiere.

    A metà agosto le persone andavano in giro con un panno sulla bocca, si affrettavano a rientrare in casa e sentivano i muri delle loro case vibrare la notte a causa delle ambulanze. Molti quartieri al centro della città vennero isolati in quanto particolarmente colpiti dal contagio, si sentivano più prigionieri degli altri, come le nostre zone rosse.

   Una delle scene più raccapriccianti che noi ricorderemo in futuro, saranno sicuramente le immagini dei furgoni dei militari che trasferiscono i morti da Bergamo. Morti che si allontanano dalle loro famiglie, senza la possibilità di un ultimo saluto, morti che hanno vissuto i loro ultimi giorni in solitudine e senza poter godere dell’affetto dei vivi. Penso che tutti coloro che hanno perso qualcuno in questa circostanza saranno tormentati per tutta la vita da questo ultimo saluto mancato, impegnati a tenere vivo il ricordo di un ultimo abbraccio spensierato che non sapevano essere l’ultimo. Anche questa tragica circostanza viene ovviamente descritta nel libro, in cui si parla prima di cerimonie funebri rapide e con solo pochi parenti, a meno che questi non si trovassero in quarantena dato che avevano vissuto col morto.  

   Infine si passò alla sola formalità di avvertire le famiglie della morte del parente e si cominciò a procedere con cerimonie raggruppate dato che cominciavano a scarseggiare i lenzuoli per coprire i feretri, per poi arrivare alle fosse comuni, prima divise tra uomini e donne e poi miste, data la mancanza di spazio nei cimiteri, cosa che a noi sembra impossibile ma che ad oggi, New York, è considerata come una possibilità.

    La peste aveva inoltre favorito la spersonalizzazione dei cittadini. Nessuno si occupava più del modo in cui vestire, nessuno si curava più. Non so voi, ma io da ormai un mese alterno la tuta al pigiama, non mi trucco mai, non mi preoccupo particolarmente di tenere i capelli in ordine, e allo stesso modo vedo persone in fila al supermercato che sembrano essersi dimenticate come ci si sente a curare la propria immagine, e che giustificano questa totale spersonalizzazione con frasi del tipo “va beh… ma tanto non mi deve vedere nessuno”. E in un certo senso è vero, dato che dietro alle mascherine, accessorio must have della collezione primavera – estate 2020, non si distinguono i volti delle persone.

   Mentre leggevo il libro mi sono resa conto che la pandemia che stiamo vivendo ora è come se seguisse il progredire della storia, come se il libro fosse stato usato come un manuale da seguire, chiaro esempio del fatto che la storia tende a ripetersi. L’unico momento che ho letto e che ancora non ho vissuto è la fine della pandemia e l’allegria che porta con sé, un’allegria che accomuna tutti, ma che il dottor Rieux ricorda essere effimera perché “il bacillo della peste non muore né scompare, può restare per decine di anni addormentato”, fino al giorno in cui “per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

   Ho letto questo libro a febbraio 2020 e questo ha decisamente condizionato la mia analisi, facendomi concentrare sul parallelismo tra libro e giorno d’oggi, ma quando Camus ha scritto questo libro nel 1947 non pensava a noi del 2020 che ci saremmo immedesimati nel racconto della pandemia. Il libro, infatti, utilizza la peste come un’allegoria della guerra e del male.

   Se non si legge l’introduzione prima del libro, ci si rende conto di tale allegoria solo nelle ultime pagine: è in quel momento che tutto ciò che si è letto prende un senso diverso; o forse risulta chiaro fin da subito, ma io ero troppo occupata a leggere come se stessi leggendo gli articoli dei giornali di febbraio. Il concetto dell’ingiustizia e della guerra viene reso chiaro dal racconto della vita di uno dei personaggi, Jean Tarrou, figlio di un magistrato che entra a far parte dei militanti contro la pena di morte, fino a quando non si rende conto che anche questi ammettono la morte in segno di vittoria. È lui infatti che continua a ripetere per tutto il libro che siamo tutti degli appestati e che l’unica scelta che abbiamo è quella di contagiare o meno gli altri: “il microbo è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve fermare.”

   L’uomo onesto è colui che non infetta nessuno, e per farlo non bisogna avere distrazioni, e “ce ne vuole di volontà e tensione per non essere distratti, essere appestati è molto faticoso ma è ancora più faticoso non volerlo essere”. Con appestati Camus intende persone maligne, e afferma che sulla terra ci sono i flagelli, la guerra, e le vittime, e per quanto possa essere faticoso, bisogna rifiutarsi di essere col flagello. È con questi passaggi che il lettore si sente in un certo senso illuminato e comincia a dare un senso diverso a ciò che ha letto. D’un tratto si capisce chiaramente che la peste è il male e che tutto il libro è una lunga ricerca di un antidoto a questo male inspiegabile che si abbatte sugli uomini. Si cercano continuamente spiegazioni a questa sofferenza impartita alla gente comune e se ne trovano diverse: da quella metafisica di padre Panelaux, che vede la peste come la volontà divina di Dio che vuole condannare l’umanità, fino a quelle laiche. Tra queste troviamo l’idea di Grand, segretario comunale, quella del giornalista Rambert, di Tarrou, di Cottard, uomo che lucra sulla penuria di generi di prima necessità, e quella del dottor Rieux.

   Per Tarrou e Rieux, esponenti di una sorta di azione umanitaria, la peste e quindi il male rappresentano l’ingiustizia che non può secondo loro andare di pari passo con l’idea di un Dio buono e onnipotente. Si tratta di una lotta collettiva, e non del singolo individuo come pensava Sartre, contro il male. Una lotta dove non ci sono né vincitori né vinti dato che il male esiste da sempre e resisterà per sempre come il bacillo della peste, non ci si potrà mai liberare del male perché il male è intrinseco nell’umanità. Ciò che è possibile fare, però, è limitare questo male e le vittime che porta, e secondo Rieux il modo per farlo non è accettarlo passivamente abbandonandosi alla volontà di Dio: egli rifiuta infatti una condizione in cui vengono torturati persino dei bambini e fatta soffrire l’umanità.

   Rileggendo alcuni passaggi ci si rende conto che Camus vuole farci capire che la peste è ovunque, e in particolare nella politica e nei regimi totalitari come il nazismo. E quando si capisce questo i personaggi cambiano, e vediamo in padre Panelaux l’incarnazione dei cristiani della resistenza, in Cottard i collaborazionisti francesi complici dei tedeschi, in Rambert la figura di Jean Paul Sartre che si unirà alla fine della guerra alla resistenza cominciando a scrivere nel giornale Combat diretto da Camus.

   “I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. (…) La stupidaggine insiste sempre, ci se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi, il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano’

    Da questo si evince il timore di Camus stesso del ritorno di dittature passate, specialmente il nazismo, e la paura di una possibile terza guerra mondiale. Del resto, come dice lo scrittore, non dimentichiamo che il microbo della peste non muore mai, ma resta dormiente: starà a noi rimanere vigili col fine di evitare il ripetersi di queste atrocità. Con questo Camus esalta l’intelligenza dell’uomo, partendo dal presupposto che “il male del mondo viene quasi sempre dall’ignoranza”, e invita quindi a prendere consapevolezza del male latente in modo da limitarne i danni, così da poter essere finalmente liberi, perché “nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli”.

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