Roberto Baggio: Il poeta errante5 min read

di Lorenzo Gerardi

Il sogno di un bambino che ama il calcio, che spera un giorno di poter calpestare con i suoi scarpini l’erba degli stadi internazionali, quelli dove non hai solo la tua famiglia o le famiglie dei tuoi compagni a vederti giocare ma le persone di tutto il mondo, comincia a Caldogno, un piccolo paese in provincia di Vicenza di circa dieci mila abitanti: lui si chiama Roberto, per tutti è il piccolo Roby, che ama giocare a pallone sia nei campi che per le strade, senza limiti ne confini.

La sua è una famiglia umile, lui è il sesto di otto fratelli e decide di iniziare a inseguire il suo sogno nel suo paese. Roberto non era un bambino come gli altri a giocare a calcio, aveva qualcosa in più, quella spensieratezza e abilità nel gioco che non si vedeva facilmente nei ragazzi delle squadre provinciali, così venne chiamato dalla squadra del Vicenza, la sua prima vera esperienza professionistica all’età di 17 anni.

Roberto era un ragazzo timido ma dal sorriso tenero e veniva visto con un occhio di riguardo da tutte le società italiane anche importanti che militavano nella serie A. Così fu acquistato dalla Fiorentina nel 1984. Ma quell’anno fu un anno di paura e sgomento per lui e per la sua famiglia, a causa della rottura del legamento crociato e del menisco rimediato durante una partita. Il grande prodigio si era fermato e tutti, compreso lui stesso, capirono che quella sarebbe stata la fine di un sogno, che da un infortunio così grave a 18 anni non si poteva riuscire ad arrivare ad alti livelli nel mondo del calcio.

La Fiorentina stava decidendo se acquistarlo comunque o lasciarlo al Vicenza: non possiamo sapere cosa pensò il presidente al tempo ma decise di acquistarlo comunque, di aiutare quel giovane ragazzo a riprendersi e magari garantirgli un posto nella sua rosa per i prossimi anni come sostituto o riserva.

Da qui comincia la vera storia, la storia che ha portato quel ragazzo ad essere ricordato per sempre nel cuore di tantissimi italiani. Baggio gioca nella fiorentina come trequartista e incanta, segna e stupisce tutti i tifosi calcistici italiani con le sue abilità, segnando per la prima volta nel 1985 contro il Napoli di Maradona: partì dalla sua difesa e arrivo fino alla porta avversaria scartando ¾ di squadra compreso il portiere e segnò.

Ma Baggio non era un calciatore come gli altri, Baggio era un uomo vero, umile, un buddhista, un padre e marito di famiglia, tanto che nel 1993 abbandono la sua squadra per giorni e settimane per stare con la sua piccola Valentina, prima dei suoi tre figli.

I tifosi italiani lo amavano, per il giocatore e l’uomo che era, per la sua semplicità e amore per la vita che mostrava ogni giorno.

Anche dopo il trasferimento alla Juve, acerrima nemica della fiorentina, Baggio era comunque amato da tutti, era colui che aveva ricongiunto il tifo italiano, dopo i numerosi scandali negli anni 70’ e 80’ di Juve, Milan e inter, per questioni di doping, corruzione o scommesse.

Cosi vinse il pallone d’oro nel 1993, ma quello non era solo il suo pallone d’oro, ma il pallone d’oro di tutti gli italiani, di tutti gli amanti del calcio, il calcio vero.

1994, mondiale in USA, l’Italia si presenta con una grande squadra capitana dal celebre e ormai amato da tutti Roberto Baggio, che portava il codino (un simbolo della sua religione).

Baggio era il divin codino, era “il Raffaello del mondiale”, cosi lo definì il presidente della Juve Gianni Agnelli, che sognava e faceva sognare gli italiani trascinando la squadra di vittoria in vittoria, di goal in goal verso la finale.

Come aveva detto fin da piccolo, il suo sogno era quello di vincere il mondiale con la maglia dell’Italia in dosso e ci stava riuscendo.

Arrivo il giorno della finale contro il Brasile, dopo le numerose vittorie, la storia si concludeva li, quel pomeriggio a Pasadena, con felicità o con dolore.    La partita non si concluse e arrivo fino ai rigori sullo 0 a 0. I rigori non andarono bene e Baggio si trovò a tirare l’ultimo, la speranza ma allo stesso tempo la disperazione, quel rigore poteva rappresentare un ultimo scalino verso il cielo e fu così che andò, in cielo: la palla di Roberto Baggio finisce alla destra del portiere sopra la traversa e il Brasile vince il mondiale

Roberto rimane lì, davanti alla porta, con la sofferenza di un uomo che ha portato la sua squadra sul tetto del mondo e che l’ha lasciata cadere, ma una caduta non dolorosa, bensì amara ma allo stesso tempo apprezzata, Roberto non poteva essere odiato o disprezzato, nessuno riusciva a farlo, tutti erano felici del percorso e delle emozioni che fino a quel momento avevano provato grazie a quel campione col codino magico. Come lui stesso affermò in un’intervista del 2018: “i rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli”.

Anche negli anni successivi, al Milan, al Bologna, all’Inter e al Brescia, riusciva a riscaldare il cuore di ogni tifoso, grande o piccolo che fosse, che vedesse il suo calcio.

Si ritira dal calcio a 37 anni, dopo due rotture ai legamenti crociati destro e sinistro, dopo aver fatto piangere di felicità e di tristezza milioni e milioni di tifosi.

L’uomo che era lo rimane per tutta la vita, apre un’azienda agricola in Argentina, va a vivere in campagna con la sua famiglia, aiuta i bisognosi diventando socio di una società misericordiosa chiamata Faq.

Ha sempre dichiarato di avere gli incubi pensando alla finale contro il Brasile, ma è fiero di tutto il bene che ha portato nel calcio italiano, di tutto quello che è riuscito a trasmettere fuori e dentro il campo, Lui è Roberto Baggio, il poeta errante.

 

 

 

 

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