Trudy, una lampadina a New York5 min read

Un’ipotetica intervista ad una donna che dipinge

di Rebecca Giusti

Trudy Benson è mora, con capelli fino alle spalle e si veste con colori basici. Sembra essere l’alterego di una delle forme colorate riprodotte sulle sue esuberanti tele, che, come spiegherò meglio in seguito, sembra che vogliano farmi un lungo discorso o urlarmi di andarmene con colori che sono pugni, quando cammino dentro il suo studio a New York.

Il suo appartamento di Brooklyn è spazioso, è la classica immagine di un’open space dove ci sono circa cinque tele per “stanza”, se così si possono chiamare i luoghi senza porte in cui ha organizzato tutta la sua vita. Mi prepara un caffè con la moka rossa, dello stesso colore del quadro a metà che le sta vicino alla gamba su un cavalletto un po’ rovinato. Lei è accogliente, ma sembra sempre distaccata, come se mi ascoltasse con un orecchio e con l’altro sembrasse più interessata alle le vocine dei quadri che vagamente ho sentito anch’io quando sono entrata.

A Brooklyn non è bel tempo e lei sembrerebbe la ragazza dipinta nell’opera di un pittore realista (che costa milioni di dollari, perché veramente simile ad una fotografia), con l’aria annoiata ma attenta a ciò che voglio dirle, la tazzina di coccio sbeccata in mano e una finestra mezza aperta dietro, da dove sbuca il cielo coperto da nuvole passeggere.

Peccato che non si tratti di un pittore realista, ma di una pittrice che utilizza prevalentemente larghe, strette, lunghe o corte strisce e schizzi di vernice per raccontarsi al mondo dell’arte americano, così pieno di concorrenza ma allo stesso tempo così vuoto di una personalità come lei.

Trudy mi racconta, mentre fuori il clima non ci assiste e si scatena una brutta tempesta nel quartiere, che è nata nel 1985 a Richmond, in Virginia. Nel 2010 ha ricevuto un premio da Pratt Institute di Brooklyn e un significativo riconoscimento dalla Virginia Commonwealth University nel 2007.

Alla domanda “Trudy, come ti sentiresti di definire il tuo modo di dipingere o ad una sconosciuta come me, che beve caffè da una tua tazza ma non saprebbe delineare i vari fattori che ti ispirano?” lei fa una risatina sommessa, coprendosi con la mano la bocca.

“Bene, dunque, da dove partire. Intanto mi definirei sicuramente qualcuno che vorrebbe gridare molto attraverso la sua arte, non so se un individuo esterno lo capisce. Ci sono alcuni pittori, che ho conosciuto durante la mia carriera, che fanno parlare le loro opere ma ad un volume estremamente basso. Non è un metro per giudicare l’operato dei miei colleghi, anzi, tutt’altro, lo sottolineo bene altrimenti inseriscono articoli su di me in qualche altro giornale definendomi “la strega che scredita gli altri”, tutt’altro. L’ho sempre pensata così: ci sono vari toni con cui ciò che si realizza può parlare: qualcuno canta, racconta filastrocche, parla di attualità, ma io vorrei urlare. Credo che le mie principali ispirazioni, come ormai è noto, sono i primi programmi per computer: MacPaint e Windows Paint. Nelle mie composizioni cerco di ricreare le linee ondulate e spasmodiche dei primi software di pittura per i vecchi PC che circolavano moltissimo negli anni ’80, ’90, lei ne aveva uno? Eh si, lo so, lo avevamo tutti.

I fattori che definiscono maggiormente il mio lavoro sono sicuramente l’informatica, di cui sono sempre stata grande amante e sostenitrice ma anche la sensibilità, perché ciò che raffiguro parla con la voce grossa ma credo che quello che dipingo riesca a capire le cose ed i pensieri che le persone che vengono alle mie mostre hanno dentro, ma non tirano mai fuori. Ecco perché in un certo senso penso che venire ad una mia esposizione è come una seduta dal terapeuta: all’inizio ti prendi una bella rinfacciata su come stai conducendo e lasciando andare tutto, ma più fissi quella parte di spazio con sezioni colorate e incontrollabili, più ti accorgi che quel corpo inanimato ti capisce, è diretto, ti prende per la mano. Ti accompagna nell’intervallo di tempo in cui lo guardi, ma in realtà pensi a te stesso.”

Fuori le nuvole continuano ad addensarsi, il caffè che ho lasciato sul tavolo per fare le domanda ormai è un po’ freddo, ma questa risposta ha decisamente chiarito ogni dubbio che avevo su questa donna singolare. Trudy mi offre dei biscotti fatti da lei, scherzando sulle recensioni piene di paroloni indecifrabili che le ha fatto qualche esperto di arte durante gli anni, provando a farle capire anche a “un giornalista, che magari ne sa più di questa povera donnicciola con qualche quadretto in casa”, come mi dice lei facendomi molto divertire. Nonostante sia brutto tempo all’esterno, questa artista emergente sembra che veda dentro di sé qualcosa che si illumina quando fa il suo lavoro ed onestamente, è proprio vero: potrebbe essere la prossima lampadina su New York.

Ci tenevo a precisare che Trudy Benson è un’artista realmente esistente che lavora a New York, a Brooklyn. Oggi ha trentasei anni e produce quadri ispirati a programmi informatici, astratti e che comunicano molto attraverso la forma e l’originalità delle linee. Le sono stati riconosciuti i premi elencati nell’intervista e vanta recensioni di molti giornali sulle sue mostre. L’intervista, il carattere e la risposta della donna nell’articolo sono frutto della fantasia, così come la casa in cui vive. In ogni caso, insieme a molti altri pittori, scultori, artisti che in tutto il mondo cercano di farsi conoscere per ciò che realizzano, Trudy ha ogni giorno il coraggio e “un qualcosa che si accende dentro come una lampadina” che le serve per farsi spazio nel panorama artistico mondiale.

 

Rebecca Giusti

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