A caccia della felicità3 min read

La disciplina che ha sempre legato l’uomo alla natura è maestra di felicità

di Camilla Rodella

   Ognuno di noi è alla costante ricerca della felicità. Molto spesso ci sentiamo vuoti, affogati dai cosiddetti ‘obblighi lavorativi’, tanto che, quando ci troviamo in quelle brevi ‘pause dalla vita frenetica’, proviamo noia, malessere, nostalgia. Questo perché non abbiamo avuto modo di sviluppare e scoprire quelle passioni o hobby che ci permettono di evadere momentaneamente dalla nostra quotidianità. È il cosiddetto struggle for life.

   Nel saggio filosofico Meditazioni sulla Felicità, José Ortega y Gasset prova a spiegare da cosa essa derivi e come sia possibile trovarla. Secondo Ortega, “l’uomo non può vivere pienamente senza una cosa che sia in grado di riempire il suo spirito a tal punto che egli desideri morire per essa. […] Ciò che non ci spinge a morire non ci spinge a vivere”. Da tale affermazione sviluppa uno dei temi fondamentali per il libro: la caccia. Essa è il fulcro dell’intero saggio, perché è l’unica disciplina che ci ricongiunge alla natura, facendoci provare l’ebrezza di dominare l’animale selvatico.

   Un po’ come nella filosofia stoica, anche Ortega ritiene che vivere in conformità con la natura sia essenziale per essere felici. Praticata fin dall’antichità come mezzo di sopravvivenza, la caccia continua ad esserlo ancora oggi: essa è stata ed è, infatti, un mezzo di distrazione e svago per molti uomini che, isolati da tutto e tutti in un bosco, provano il fervore trasmesso dalla ricerca dalla ricerca della preda. “La caccia è uno sport così universale e appassionante” che, contrariamente a ciò che alcuni possono pensare, non consiste nell’uccisione dell’animale, ma sul piacere di dominarlo. “Caccia è quello che un animale fa per impadronirsi, vivo o morto, di un altro animale che appartiene ad una specie vitalmente inferiore alla sua. […] E’ necessario che l’animale cacciato abbia una chance, che possa in linea di principio evitare la propria cattura. […] Non è essenziale alla caccia che i suoi scopi vengano raggiunti. […] Tutto l’interesse della battuta di caccia sta nel suo essere sempre problematica”. Il momento più terribile e difficile è l’uccisione della preda, infatti, “il cacciatore è portatore di morte”.

   Ortega ci spiega perciò l’inquietudine presente nell’animo del cacciatore al momento del ‘colpo finale’. Non è da credere, infatti, che la caccia sia solo improntata a uccidere, ma, al contrario, è una disciplina che ha la sua etica e le sue regole.

Andando oltre tale tema, il filosofo spagnolo, nella parte conclusiva del libro, parla della vita e del piacere in linea più generale. Egli afferma che ciascuno è legato alla sua “circostanza”, che siamo tutti “suoi prigionieri. La vita è prigione nella realtà circostanziale. L’uomo può togliersi la vita, ma se vive, non può scegliere il mondo in cui vive. […] Perché la vita, signori, dà molto da fare […]. La vita è un ‘fare totale’”. È impossibile evadere da essa, perciò spesso diventa sofferenza, costrizione. “L’uomo ha bisogno di riposare dal suo vivere” e l’unico modo per farlo e giocare: il gioco ci permette di crearci un mondo immaginario, fatto secondo il nostro piacimento. È una distrazione e, la distrazione, provoca piacere, che culmina nella nostra felicità. Il gioco è anche arte, in tutte le sue infinite forme.

   Un altro topos su cui Ortega riflette è il tempo. Spesso esso ci preoccupa, dato che più scorre e più il nostro presente è complicato. Perciò il nostro desiderio è di tornare indietro, a quando tutto era più facile e ogni cosa aveva già una sua soluzione. Ma tornare nel passato non è possibile, quindi come fare? Domande del genere sono quelle che si pone il filosofo e, nel tentativo di rispondervi, “va per il mondo come un bambino con gli occhi sempre sognanti, dilatati da continuo stupore, sorpresa e meraviglia”.

J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, Sugarco Edizioni, 1978. 

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