Lady Gaga, la ex first lady americana e Alessandro Gassman hanno qualcosa in comune

di Rebecca Giusti

   Alcuni luoghi nella nostra società sono sempre stati guardati con occhio critico ed espressione rassegnata, perché tutti sappiamo cosa sono ma in realtà è meglio non parlarne. Tutti abbiamo un qualcuno di conosciuto o di sentito dire da varie chiacchiere che è stato in comunità, ma quando le persone tornano sull’argomento è più facile fare spallucce con fare contrito e sussurrare: ‘Oddio, povero Giacomo/Luca/chi volete voi, sembrava tanto un bravo e bel ragazzo’ , girando lo sguardo e mantenendo quei trenta secondi di silenzio che ci permettono di cambiare argomento e tornare a parlare della discussione interrotta. Perché in realtà è molto più comune non nominare neanche quelle brutte e cattive malattie di cui la gente soffre così tanto, ma, secondo l’opinione pubblica, è decisamente più adeguato guardarle con rammarico e sospetto in modo tale che alla fine nessuno creda fino in fondo che esistano davvero o la gente possa guarire da quei terribili mali che vengono dipinti come ciò che di più terribile esiste sul globo terracqueo. Le cliniche, i Rehab, i centri di ricovero sono posti che esistono davvero dove le persone stanno sul serio, e quel Giacomo o Luca che nominate non è solo un’entità passeggera in discorsi di ben altro calibro, ma in quel momento si trova, molto probabilmente, a soffrire da solo.

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Cosa ci rimane?

Articolo di attualità sociale sempreverde: trovare la propria persona

di Rebecca Giusti

   Penso spesso che sia difficile trovare una persona come la vuoi te, che legga Manzoni ed abbia quel fascino da intellettuale d’altri tempi che frequenta circoli culturali di sinistra ma anche abbastanza moderato nelle sue idee, che sia simpatico ma non troppo che poi potrebbe esserlo più di te e poi sarebbe dura parlarci mentre ridi solo tu, che ti parli di quanto sia interessante quell’ultimo documentario che ha visto, ma che non parli solo di quelli perché sennò chi lo vuole uno che può avere conversazioni solo su Alberto Angela. Un qualcuno dai capelli rosa, blu ma troppo colorati no sennò la coppia sembrerebbe formata da uno che tutti vorrebbero conoscere e il suo compagno, che sarebbe sempre relegato alla figura di “quello che sta con…” perché è un po’ timido ed ha dei monotoni capelli marroni eccessivamente scialbi per essere ricordato in prima persona senza essere associato a qualcun altro. Qualcuno che sappia litigare con te perché in tutti i film mielosi e romantici degli anni duemila che abbiamo sempre visto la ragazza con gli occhiali e la montatura spessa si innamora del tipo che nei primi cinque minuti odiava e guardava in cagnesco durante le lezioni di chimica, ritenendolo superficiale e poco attento sugli aspetti che veramente importano nella vita (come per esempio le reazioni chimiche redox). Ma se una non è brava in chimica? Se a lei non piacessero quelli con i capelli troppo in gelatinati e non portasse gli occhiali? Se esistesse qualche persona con cotte per persone solo parziali, per esempio: sì, a lezione mi è piaciuta quella battuta che ha fatto alla prima ora ma no, l’amore folle che provavo in quei dieci secondi si è spento quando ha detto che non sarebbe mai uscito dall’Italia per la fuga di cervelli che sta avvenendo fra i giovani (quindi è da scartare perché evidentemente non ha intenzione di comprare un bilocale con te a New Orleans per vivere di pane e musica, ma sogna un po’ di meno? Vuole una carriera più sicura? Non è disposto a fare battute senza senso sul fatto che andrete a vivere in una casa senza neanche materasso per poi poter raccontare anche voi di essere partiti dal niente come ormai è usanza che si faccia? Non lo so, fatto sta che il sentimento che credevi di provare dopo quell’uscita è svanito in una montagnetta di bricioline).

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La luce della notte

di Rebecca Giusti

   Secondo me la notte e il buio non sono mai stati la stessa cosa. Retoricamente parlando non puoi dire che la notte sia buia, opterei più per un aggettivo come luminosa, anche se forse sto scadendo nell’ossimoro. La notte è come un posto sicuro in cui puoi fare tutto ciò che più ti piace senza la luce vera e propria, fastidiosa ed invadente, che illumina i punti che vuoi nascondere ogni secondo. Il giorno è come una coperta troppo piccola che usavi quand’eri bambino ed in cui entravi perfettamente: ti copriva i piccoli piedi, i riccioli acconciati in ciuffetti ridicoli e non serviva pensare a come poterla allungare alle estremità per coprirti tutto perché tanto conteneva il tuo corpicino nella sua completezza. Crescendo cominciava a starti troppo piccola e quando cercavi di coprire un’area subito se ne scopriva un’altra, con altre persone che accorrevano per osservare la parte del corpo rimasta di dominio pubblico, commentandola mentre provavi nuovamente a cucire una prolunga a quella coperta ormai lisa e nasconderti tutto. Di notte è come se tutto l’universo si foderasse di una patina opaca che non permette di osservarsi a vicenda e quindi ogni persona mette la sua coperta giornaliera in un cassetto per riprenderla solo all’alba, perché tanto nelle ore notturne esiste una copertura uniforme per tutti i corpi che non ha bisogno di essere allungata o rattoppata nelle parti distrutte perché è indivisibile. Il buio per molti esiste di giorno, quando il sole curiosa in te stesso e tu non sai come fare ad oscurarlo e tornare alla meravigliosa luce che c’era poche ore prima. Pensa a quante meravigliose cose possono succedere mentre splende uno spicchio di luna o addirittura una luna intera nel cielo buio: un elemento così romantico, protagonista di così tante storie diverse, film di fantasia improbabili o musical scadenti, sopravvalutato e utilizzato da molti artisti impropriamente, non è poi così tanto male.

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Introduzione a un libro mancato

di Rebecca Giusti

   Sono solo io o le vicissitudini e gli aneddoti fondamentali dei membri della mia famiglia, riguardanti anche i personaggi più antipatici, noiosi e burberi che nella vita reale varrebbero la pena di essere classificati come ‘rompicoglioni’ (scusate il termine), ad assumere nei racconti un non so che di caratteristico ed estremamente interessante? Nelle saghe familiari le cose che ci succedono quotidianamente diventano all’improvviso eventi unici, rari ed irripetibili, ad esclusione de Il segreto: in quel caso credo che anche il regista abbia perso il filo dei milioni di intrighi amorosi che ci sono e gli alberi genealogici spropositati per ogni singolo personaggio. 

   In altre opere di questo tipo i personaggi sembrano nati per apparire in un best seller o divenire luoghi comuni in un futuro molto lontano (vedi il padre della protagonista in Lessico familiare di Natalia Ginzburg, che scanserei prontamente se mi capitasse di incontrarlo nella mia vita, con uno scatto veloce per correre subito a sparlare di lui con la prima amica che mi capita a tiro). In Cent’anni di solitudine, quegli strani individui abbastanza equivoci quasi innamorati dell’amore stesso, sono fiabeschi (sì lo so che è un romanzo nato puramente dalla fantasia dell’autore, ma lasciatemi finire la frase) ma anche se le loro avventure sono frutto della mente creativa di Marquez, risultano verosimili. Sono talmente diversi l’uno dall’altro che vorresti presentarti alla porta della loro casa con un taccuino e una faccia sognante per chiedere un autografo alla famiglia per intero: probabilmente dovresti vivere non so, circa cinquecento anni e possedere uno o due rotoli di carta Scottex a doppio strato per contenere tutte le firme, ma sarebbe possibile volendo. Nella vita reale sarebbero oggetto solo di chiacchiere da parte di anziane del paese che stanno tutto il giorno ad osservare le faccende altrui dalle loro finestrine coi gerani, mentre nel libro sembrano nati per essere descritti tra le pagine e studiati da studenti di letteratura sudamericana del ventunesimo secolo.

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