I mostri secondo Jim Jarmusch

di Pietro Phelan*

   Affrontare la permanenza forzata a casa non è senz’altro un compito semplice e gli stimoli per la nostra mente sono sempre più difficili da trovare. Da qualche settimana a questa parte, l’eventualità di cadere in un’asfissiante monotonia intellettuale è sempre dietro l’angolo, rischiando di far sembrare ancora più opprimente e insostenibile questo particolare periodo delle nostre vite. In molti accusano il fatto di non sapere come impiegare il tempo e in che modo trascorrere le lunghe giornate casalinghe che siamo “costretti” ad affrontare quotidianamente. Ma, in questo periodo più che mai, bisogna resistere alla tentazione di spegnere il cervello e rassegnarsi alla monotonia della quarantena. Tenere allenata la nostra mente, proporle stimoli sempre nuovi e originali, farla lavorare alla ricerca di nuove interpretazioni e idee originali, sono alcuni fra i migliori rimedi per evitare una lenta e inevitabile alienazione in se stessi.

   In questo senso, il cinema rappresenta uno degli strumenti più efficaci a nostra disposizione. Nelle sue espressioni più alte, questa forma d’arte riesce a stupire sia per i contenuti di cui si fa portavoce, sia per ciò che propone dinnanzi ai nostri occhi. Il cinema è un’unione inscindibile di parola e immagine, di forma e contenuto, che si distingue dalle sue arti “sorelle” per il fatto di proporre immagini catturate da un occhio mai fisso ma costantemente in movimento e in grado di offrirci molteplici punti di vista, ovvero la macchina da presa. E quando l’opera cinematografica è grande, ciò che possiamo trarre da essa è tanto un piacere estetico derivato dalla sua contemplazione (lo stesso che ricaviamo dall’osservazione di un eccezionale dipinto), quanto una nuova prospettiva sul mondo che ci circonda.

   Nelson Goodman, grande filosofo delle forme artistiche, pensava che un’opera d’arte potesse essere definita “grande” nella misura in cui essa fosse risultata “illuminante” per la nostra concezione del mondo. Un grande film, dunque, è quello che ci fa vedere cose che in precedenza avevamo tralasciato, che ci offre nuove e originali prospettive su tematiche già affrontate e che riesce a trasformare, anche solo parzialmente, la concezione dell’ambiente in cui viviamo.

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Moby Dick, il mostro degli abissi della nostra coscienza

di Filippo Del Testa.

   Finalmente, dopo mesi di lettura, posso dirlo: è stato un viaggio sensazionale. Il romanzo, scritto da Herman Melville nel 1851, è tutt’oggi considerato uno dei più grandi capolavori della letteratura americana; ma originariamente non fu identificato come tale: esso infatti non piacque molto ai contemporanei e fu considerato come un vero e proprio fallimento a livello commerciale, tanto che determinò la fine e la conseguente morte della carriera letteraria di Melville. Il romanzo fu riconsiderato soltanto circa 50 anni dopo la sua composizione e venne collocato, com’è giusto che sia, ai vertici della letteratura americana se non addirittura di quella mondiale.

   La balena bianca ha sempre avuto un ruolo determinante nell’ immaginario collettivo di tutti noi, c’è chi l’ha temuta, chi ha sempre desiderato di reincarnarsi nella sua possente natura, chi ha provato ribrezzo e sdegno soltanto ad immaginarsi un tale essere; eppure c’è anche chi ne è stato ossessionato a tal punto da spendere tutta la vita alla sua ricerca. Questa è la storia del Capitano Achab, descritto magistralmente da Melville, che seppur non identifichi in lui il narratore della sua opera, decide di far ruotare tutta la vicenda attorno all’ angusta e angosciosa personalità del capitano.

   Achab decide dunque di dedicare la sua intera vita, alla ricerca di ciò che per lui è definibile come l’incarnazione di tutti i mali, terrestri ed extraterrestri, colui che lo aveva privato di una parte di sé: Il Leviatano, Moby dick.

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Quando i nostri avi scelsero cosa saremmo diventati

di Alessandro Rosati

   Sono passati esattamente 72 anni da quando l’Italia Repubblicana scelse il suo destino. Era il 18 Aprile 1948. Il mondo intero era appena stato sconvolto dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla follia della Germania Nazista. Lungo lo stivale regnava ancora la distruzione lasciata delle bombe, dalle pallottole, dal conflitto appena vissuto. Come un animale ferito, l’Italia si leccava le ferite per rialzarsi e ripartire.

   Due anni prima gli Italiani avevano fatto la loro grande scelta: Monarchia o Repubblica? Sappiamo tutti come andò a finire. Vittorio Emanuele III lasciò il posto prima ad Enrico De Nicola e poi a Luigi Einaudi, così come lo Statuto Albertino, in vigore dal 1848, dopo un secolo esatto fu sostituito dalla Costituzione Italiana.

   Nel frattempo il mondo si divideva, o meglio si era già diviso, con una spaccatura che diverrà tanto importante da poterne vedere gli effetti ancora oggi: USA da un lato, URSS dall’altro; Capitalismo e libero mercato da una parte e Comunismo dall’altra; Piano Marshall (piano di ripresa economica europea voluto dagli Stati Uniti) oppure Patto di Varsavia e così via.

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Una donna scarlatta

di Nello Benassi

In questi giorni di reclusione forzata in cui cerco di farmi spazio tra la noia di giornate che scorrono lente e monotone ho fatto un incontro alquanto singolare con qualcuno che conosce bene la sensazione di straniamento dalla propria realtà quotidiana. Sto parlando di Hester Pryenne, la protagonista del romanzo più famoso di Nathaniel Hawthorne: La lettera scarlatta.

   È il 1642 e ci troviamo nella neonata colonia puritana di Boston, nel New England. Il romanzo si apre con la descrizione del portone della prigione, provato dalle intemperie. Il prato antistante è occupato da una folla in fermento, le porte si aprono e lo sguardo di tutti si rivolge a una giovane donna che tiene in braccio una bambina nata da poco. Ciò che però l’attenzione di tutti è un simbolo, cucito sul suo abito all’altezza del petto, una lettera A di colore scarlatto. Il significato è chiaro a tutti: è l’iniziale della parola adulterio adultery. Hester si rifiuta di rivelare il complice di quel peccato. La storia si complica quando la donna viene condotta sul palco della gogna, dove uno strano individuo ricambia lo sguardo di Hester. Veniamo poi a sapere che si tratta di suo marito, rimasto per un periodo in Europa e poi creduto morto. Roger Chillingworth vuole vendetta e anche se Hester non è disposta a rivelare l’identità del padre della piccola Perla, il vecchio medico non è disposto ad arrendersi e dopo aver fatto promettere alla moglie di non rivelare a nessuno la sua vera identità avvia le sue indagini. La comunità di Boston riconosce come guida spirituale un giovane pastore, Arthur Dimmesdale, in cui riconosciamo la figura dell’amante di Hester. Data la sua natura cagionevole, gli amici insistono perché si affidi alle cure di un medico. Ora a Chillingworth non resta che prendersi la sua vendetta, ma non prima di aver tormentato l’anima e la psiche del povero pastore. Passeranno sette anni prima che Hester, pentita, riveli la verità all’amante e le loro anime possano essere salvate dalla dannazione eterna.

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