Riscoprire la felicità

di Elisa Triani

“La maggior parte delle persone, pur non sapendolo, sono addormentate”. Questa è una delle frasi con cui si apre il libro Messaggio per un’aquila che si crede un pollo (Pickwick, 1995) di Anthony de Mello, un filosofo e gesuita conosciuto per i libri in cui esprime, con un umorismo coinvolgente, un’immancabile gioia di vivere. Una simile affermazione può far sorgere delle domande: Addormentate? In che senso addormentate? Stiamo forse dormendo senza rendercene conto? E se davvero stiamo dormendo, come facciamo a svegliarci?

Questi dubbi trovano risposta nel corso della lettura del libro, il cui titolo in lingua originale, Awareness, rende forse meglio l’idea del suo contenuto. Già nel primo capitolo ci viene spiegato, anche se molto vagamente (verrà poi approfondito in seguito), cosa si intende per “risveglio”. Con questo termine ci si riferisce al risveglio spirituale, a quel risveglio dell’anima che comporta la ricerca della felicità dentro se stessi.

La vista, la veglia sono ostacolate dalla creazione di un muro di illusioni create dalla propria mente per mezzo delle idee che la società ci trasmette sin da piccoli, ovvero la ricerca dell’approvazione, della stima, del successo, dell’accettazione, della popolarità, di giudizi e pregiudizi sulla base dei quali siamo stati abituati a vivere. Un altro dei mattoni che formano questo muro è il “desiderio”, senza la realizzazione del quale ci neghiamo la felicità. Mettiamo che io abbia un desiderio e voglia che si realizzi con tutta me stessa; a questo punto mi dico: “fino a che questo non accadrà, senza questo, non posso essere felice”. Sto creando un ostacolo, una condizione alla mia felicità. Se questo è il caso, anche se il desiderio in questione si realizzerà, mi sentirò appagato e felice solo per un certo periodo di tempo. Dopoché me ne dimenticherò, sprofondando nuovamente in uno stato di insoddisfazione per poi buttarmi su un altro desiderio. Capite quanto questo suoni sbagliato? Eppure è quello che facciamo. Leggi tutto “Riscoprire la felicità”

Indro Montanelli, giornalista e scrittore: parte seconda

Domande e risposte.

Trascrizione a cura di Alessandro Rosati

Domanda: per quanto riguarda il rapporto tra vero, verosimile e giornalismo. Citando Montanelli lei ha detto “meglio raccontare la verità con aneddoti falsi”, ma la domanda sorge spontanea: così facendo non si esce dal campo del giornalismo?

Alberto Malvolti: Giustamente tu applichi al giornalismo una definizione classica, per cui il giornalismo è semplicemente un racconto distaccato e obiettivo dei fatti. Certamente questa operazione di introduzione di elementi narrativi nella scrittura giornalistica è un passo abbastanza audace da parte di Montanelli. Però funziona. Funziona perché nessuno dei soggetti raccontati da Montanelli, come personaggi, si è mai lamentato che la sua personalità era stata tradita dal racconto. La personalità è risultata vera anche se c’erano degli aneddoti “di colore”. Il verosimile è stato una verità, meglio di un realismo puro e semplice che non diceva molto del personaggio. Proviamo a fare una riflessione su tre termini: verità, vero e verosimile.

Se io dico “vero” intendo quello che è accaduto, un fatto vero. Se faccio un ritratto di una persona rendendola verosimile, posso sia “tradire” quella persona e raccontare il falso, sia raccontare una verità. Si può descrivere qualcosa con elementi che non fanno parte del “vero”, ma che attraverso il “verosimile” rendono un ritratto di “verità”.

La risposta che Montanelli ha dato ad Emilio Cecchi è la più eloquente per questa domanda: con tanti “pezzetti” di verità, a seconda di come sono disposti, si può costruire un ritratto completamente falso. Un po’ come un collage di pezzi di foto con cui puoi fornire un’immagine diversa. Un ritratto di un grande pittore invece può estrapolare di più da una persona, rispetto ad una fotografia con un sorriso stereotipato, fatto giusto per essere fotografati. Tirare fuori la verità richiede spesso e volentieri una buona dose di verosimile: il collage (di pezzetti di verità, ndr) da solo non è sufficiente, anzi a volte può servire per raccontare delle “mega” bugie. Tra l’altro non è un caso che Montanelli esprima questo concetto proprio a Cecchi, uomo di grande spessore che sapeva di avere la stessa linea di pensiero.

Domanda: Una domanda che probabilmente ha già affrontato: sotto tutti i punti di vista, cosa vuol dire essere un giornalista?

Alberto Malvolti: Probabilmente se lo chiedete a 10 giornalisti, avrete 10 risposte diverse. Tra l’altro quello che penso io ha anche poca importanza, perché io non sono un giornalista e non frequento redazioni di giornali. Sono abbastanza sprovveduto da questo punto di vista. Essere giornalista al tempo di Montanelli, nella sua concezione, era quella di essere un testimone: vedere e poi raccontare i fatti. Questa potrebbe essere una definizione di quel ramo particolare del giornalismo che si chiama reportage. Montanelli è stato famoso negli anni’ 30/40 per il reportage di guerra e poi di viaggio (in Giappone, in America, In Africa ecc). È anche vero che oggi questa forma giornalistica, non dico che è tramontata, però è in un ambito molto limitato. Il modo di procurarsi le notizie ormai passa attraverso agenzie di stampa, internet ecc. L’individuo, il giornalista in persona, è passato in seconda linea rispetto al flusso di notizie che viaggia attraverso altri canali. Quindi il giornalista non ha più la figura di protagonista che aveva un tempo.

Vi voglio leggere una particolare definizione che diede proprio Montanelli. Alla domanda “sopravviveranno il giornali di carta?”, Montanelli rispondeva così: “Penso di sì. Il quotidiano tradizionale è un’invenzione a suo modo perfetta: si piega, si trasporta, si legge si butta. I quotidiani come li conosciamo diventeranno però (era il 1999, il mondo è ulteriormente cambiato) l’abitudine di una minoranza ancora più ristretta di quella attuale. Il motivo? La concorrenza. Sessant’anni fa, quando ero inviato speciale, l’Italia aspettava i miei articoli per sapere cosa stava accadendo in Finlandia. Oggi qualsiasi avvenimento è coperto, come si dice in gergo, da televisioni, radio, quotidiani nazionali e locali, agenzie, settimanali, mensili, internet e quant’altro. Questo bombardamento di informazioni equivale spesso a nessuna informazione. Vuole sapere se sono amareggiato? No, sono rassegnato. Ho l’impressione che i quotidiani diventeranno un segno di distinzione, come i libri, i congiuntivi e le posate d’argento. Verranno molto copiati, molto citati, ma letti poco. Alcune informazioni specializzate arriveranno da internet, se ho capito cos’è, non mi stupirei quindi se l’offerta di questi media, sempre a caccia di grandi numeri, scendesse ancora di livello”. Diagnosi abbastanza pessimista, come si vede, anche troppo. Il vecchio Montanelli tendeva ad inclinare verso il pessimismo. È chiaro che nel vedersi cambiare il mestiere tra le mani avesse questo tono pessimistico.

Indro Montanelli, giornalista e scrittore: parte prima

Alberto Malvolti, Presidente della Fondazione Montanelli, ha parlato alla redazione di Leviagravia di uno dei grandi maestri del giornalismo italiano

Trascrizione a cura di Eleonora Rugani e Francesco Bertoli

 

Alberto Malvolti: cominciamo con una piccola premessa su un aspetto particolare della figura di Montanelli perché, come sapete, ha avuto una vita lunga, ha vissuto 92 anni ed ha iniziato a scrivere, a fare il giornalista a 24/25 anni e quindi ha una vita di scrittore e giornalista di una settantina di anni e raccontare tutta la sua carriera giornalistica ci porterebbe via troppo tempo. Mi soffermo dunque come introduzione su un particolare che credo sia importante: cioè la scrittura giornalistica di Montanelli. È un punto di arrivo di un percorso che si intreccia con la biografia, come spesso succede con scrittori anche classici: si guarda la biografia per capire come la scrittura sia arrivata ad un certo punto ed abbia maturato un certo stile personale.

Questo succede anche a Montanelli, che per tutta la vita ha conservato una grande facilità nello scrivere, una sua dote maturata ed esercitata, ma sostanziale, naturale e personale che con il tempo si è trasformata e si è, diciamo così, asciugata. Voglio dire che non è soltanto un dono, ma un percorso che si intreccia con la sua storia e la sua vita.

Comincio quindi leggendovi queste sue quattro righe: “ho attraversato quasi per intero il mio secolo facendo un mestiere che mi ha permesso, anzi mi ha imposto di stare in mezzo ai fatti, a contatto con quasi tutte le grandi figure che lo hanno dominato e in grado di conoscere molti risvolti che la storia non ha registrato, ma questo sono e questo voglio restare soltanto un giornalista, un testimone del mio tempo”.

Questa dichiarazione di Montanelli al termine della sua vita mi pare che renda chiaro qual è l’idea che Montanelli aveva del giornalismo. Il giornalismo è una testimonianza, cioè è un racconto dei fatti che il giornalista vede e può raccontare. Di questa questione, cioè del testimone diretto, Montanelli ne aveva fatto una specie di mito, che può essere riassunto così: “vale quello che io vedo e che posso raccontare”.

Per esempio Montanelli aveva una certa diffidenza nei confronti dei documenti e il racconto giornalistico doveva dunque basarsi essenzialmente sulla testimonianza diretta. Anche la storia per lui va raccontata da testimone come se fosse una sorta di reportage giornalistico. Leggi tutto “Indro Montanelli, giornalista e scrittore: parte prima”

Schopenhauer e Leopardi, due facce della stessa medaglia

di Camilla Rodella

“Arcano è tutto fuor che il nostro dolor”. Il filosofo tedesco Schopenhauer e il poeta italiano Leopardi condividono l’idea che la vita non sia altro se non dolore. Leopardi accusa, come causa del male di vivere, la natura matrigna, a cui poco interessa il destino degli uomini. Schopenhauer, invece, elabora il concetto di Wille, il volere, che rappresenta l’assoluto che spinge per essere. Infatti tutto ciò che ci circonda non è altro che la forma assunta dal Wille. “Il Wille assoluto è inconoscibile; perché conoscere l’assoluto è una contraddizione ne’ termini. […] Il Wille che conosciamo è il Wille in noi, un Wille relativo sottoposto alle forme dello spazio e del tempo, e alle leggi di casualità”. Ma proprio l’origine di ogni male scaturisce dallo stesso Wille: “Questo è il suo peccato: di qui scaturisce il male”. Il Wille spinge per essere ed è il “‘Voglio vivere’ a diventare satana. La vita è opera demoniaca. […] Perché il Wille come infinito non può appagare se stesso sotto questa o quella forma, dove trova sempre un limite. Prendere dunque una forma è la sua infelicità; il suo peccato, la sua miseria è nel dire: ‘Io voglio vivere’. […] La morte è la fine del male e del dolore, è il Wille che ritorna se stesso, eternamente libero e felice. Vivere per soffrire è la più grande delle asinità”. Leggi tutto “Schopenhauer e Leopardi, due facce della stessa medaglia”