A scuola di tolleranza

di Marco Ciucci

   La Lettera sulla tolleranza viene scritta da Locke nel 1685, periodo in cui il filosofo inglese stava soggiornando in Olanda, ed è indirizzata ad un suo amico, di cui non rivela l’identità, ma che è conosciuto come Honored Sir. In questa lettera Locke tratta alcune tematiche particolarmente attuali, in particolare quella della tolleranza, più specificatamente in ambito religioso: il testo è pieno di riflessioni e monologhi del filosofo, le sue opinioni vengono sempre argomentate con esempi che contribuiscono in modo efficace a renderle convincenti.

   Locke sfrutta gli avvenimenti di quel periodo, ad esempio l’editto di Fontainbleau per denunciare la piega presa dalla Chiesa, in particolare quella Cattolica, per promuovere quei principi che saranno tipici del pensiero illuminista, quindi l’utilizzo della ragione, e per criticare la piega presa dai governatori degli stati cattolici di quel secolo, i quali spesso imponevano la propria religione con la forza. Il filosofo, prima di esporre le proprie opinioni riguardo a questa situazione, spiega cosa sono, a parer suo, la Chiesa e lo Stato: definisce la prima una società libera e volontaria di uomini che si uniscono per adorare pubblicamente il Dio in cui credono, col fine di salvare le proprie anime,  il secondo è sempre una società composta da uomini, ma è costituita unicamente al fine della conservazione dei beni civili, quindi vita, libertà, integrità fisica, proprietà di oggetti esterni, come terreno, denaro, mobili ecc.

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Il COVID-19 e l’annullamento di me stesso

di Abramo Matteoli

   Sto scorrendo Instagram. Tanto non ho di meglio da fare, neanche volendo.
   Dico sul serio, se fosse il 24 marzo del 2020 e tu vivessi in Italia, mio caro lettore, probabilmente anche tu non avresti niente di meglio da fare, a meno che tu non sia un dottore, un infermiere o Giuseppe Conte (anche se in quel caso, forse vorresti avere del tempo per scorrere Instagram). In ogni caso, dopo qualche Story inutile dove troneggia l’inutile hashtag “#iorestoacasa” (manco fosse un’impresa eroica, e non un semplice dovere imposto dallo Stato, diamine), mi si para davanti un post di @dailystoic, account che solitamente riesce a tirarmi su propinandomi massime di pensatori stoici talmente grandi e stimati che mi fanno sentire inferiore anche solo le prime sillabe dei loro conosciutissimi nomi (sarà per questo che ho sempre sentito un’ancestrale avversione verso la coscienza di Zeno?).

   Il post in questione, stavolta, non cita però nessun grande stoico del passato, bensì espone un’iniziativa che la pagina ci teneva a proporre a tutti i suoi followers: una challenge che invita impiegare il tempo in modo produttivo. Per rendere il tempo “vivo” e non “morto”. Per investire su noi stessi durante questo periodo di quarantena piuttosto che passarlo passivamente, ammazzando ora dopo ora utilizzando qualsivoglia distrazione come arma del delitto.

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Quei colori eterni sulla tela

di Nicole Mango

   Sulla Soglia Dell’Eternità è un film del 2018 ispirato alla biografia del pittore olandese Vincent Van Gogh che permette di comprendere bene quanto la sua vita sia stata dedicata esclusivamente all’arte, pur avendo iniziato a coltivare questa passione solo dopo i trent’anni. Come si può evincere da questo film di Julian Schnabel, con Willem Dafoe nel ruolo di Vincent Van Gogh, la grandezza di questo maestro è stata riconosciuta solamente dopo la sua morte e Van Gogh, sebbene ora sia considerato un pilastro del mondo dell’arte, ha vissuto tutta la vita in una condizione di estrema povertà.

   La sua situazione economica si percepisce subito da una delle prime scene del film che mostra l’abitazione dell’artista: una casa umile, formata essenzialmente da una sola stanza ed ornata soltanto dai suoi quadri sparsi e dai tubetti di vernice appoggiati sul tavolo dove dipinge. Quella stessa scena racchiude tutte le caratteristiche della tecnica di Van Gogh: il pittore è ripreso mentre raffigura le sue scarpe usurate su una tela e l’attenzione dell’osservatore non può far altro che concentrarsi sulle sue mani che si muovono veloci dando pennellate fluide con tocchi virgolati, utilizzando i colori puri direttamente sulla tela e abolendo quasi totalmente il disegno per costruire il quadro tramite l’uso diretto del colore.

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Loving Vincent, un viaggio che profuma ad olio

di Martina Baroni

   In questi giorni di reclusione forzata, tra le cattive notizie del telegiornale e la malinconia della solitudine ho deciso di ricavare un piccolo spazio giornaliero alla bellezza, così da fare in modo che il tempo passi un po’ più in fretta. A cose normali di questi tempi non mi sarei mai potuta permettere di dedicare un pomeriggio alla visione di un bel film o alla lettura di un libro, ma perché non approfittarne adesso che di tempo ce n’è così tanto? In ogni caso mi sarebbe piaciuto poter trovare qualcosa che conciliasse questo mio scopo al programma scolastico che, da maturanda, devo sforzarmi di seguire e approfondire il più possibile…   

   Non del tutto a caso mi sono dunque imbattuta nel capolavoro cinematografico Loving Vincent (tradotto in italiano come Con affetto, Vincent). Si tratta di un film diretto e sceneggiato da Dorota Kobiela e Hugh Welchman nel 2017 e prodotto dalla BreakThru Production in collaborazione con la Trademark Films, sulle fondamenta di una meravigliosa collaborazione polacco-britannica. Il lungometraggio, della durata di circa un’ora e mezza, spicca per il suo essere interamente realizzato grazie all’animazione di una serie di più di 60.000 tele completamente dipinte a mano da un gruppo di più di 100 artisti provenienti da tutto il mondo.

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