Chi ci governa dovrebbe saper usare bene la ragione8 min read

 

di Lucia Barsocchi

    La Repubblica è un’opera filosofica scritta sotto forma di dialogo tra il 380 e il 370 a.C dal filosofo greco Platone, allievo di Socrate e nato nel 427 ad Atene, il quale pose le basi del pensiero filosofico occidentale. Il dialogo avviene tra Socrate, che dopo aver assistito alle feste Bendidie viene raggiunto da alcuni amici che lo invitano a casa di Cefalo. Socrate rappresenta la voce del pensiero di Platone e la conversazione avviene tra lui, Trasimaco, Cefalo, Glaucone, Polemarco e Adimanto. Questo libro è suddiviso in dieci libri (o capitoli) che principalmente trattano l’argomento dello stato ideale secondo Platone: cioè la convivenza armonica tra cittadini e governanti basata sulla giustizia.

“E dunque, io affermo che la giustizia altro non è se non ciò che giova al più forte” Questa è la definizione di giustizia secondo il sofista Trasimaco, espressa nel capitolo primo. Trasimaco sta quindi affermando che la giustizia è ciò che è utile al più forte quando egli è capace di valutare al meglio ciò che è utile. Mi ha colpito particolarmente la risposta di Socrate, che obietta che a ciò contraddice proprio quanto avviene nelle scienze: se consideriamo la politica una tecnica o un’arte, ogni arte cerca l’utile di colui a cui si applica, ad esempio la medicina cura i corpi per il loro vantaggio, non certo per il proprio.

“Non lodano la giustizia in sé, ma la buona reputazione che ne consegue, giacché, ficcandovi dentro la buona reputazione che il giusto gode presso gli dei, sanno parlare d’infiniti beni che, a detta loro, gli dei largiscono ai santi”. Credo che questo passo nel libro secondo sia assolutamente vero: coloro che praticano la giustizia, la praticano controvoglia come una necessità, soltanto per ricavarne la buona reputazione che ne consegue, specialmente la buona reputazione tra gli dei, che li premieranno per le loro ‘buone azioni’ e il loro ‘comportarsi giustamente’. Infatti, appena essi colgono l’occasione per commettere un’ingiustizia, spesso e volentieri piuttosto conveniente, la commettono passando comunque per uomini corretti. Credo che questo sia un fenomeno estremamente comune anche al giorno d’oggi; non sono d’accordo che questo si applichi per tutti come afferma invece Adimanto, ma sono sicura che sia così per una buona parte delle persone. In generale, penso che gran parte della gente operi nel bene solo per ricevere qualcosa in cambio, anche non necessariamente materiale.

“Ritengo che la nostra città, se è stata costruita come si deve, è savia, coraggiosa, temperante e giusta. […]. Sicché, anche per questa via si può riconoscere che la giustizia consiste nel fare ciò che è proprio di ciascuno.” Penso che il capitolo quarto sia uno dei più importanti nel libro in quanto in esso viene finalmente data la definizione precisa di giustizia secondo Socrate. Nel capitolo primo infatti non si era giunti a nessuna conclusione riguardo a cosa essa effettivamente fosse, ma si erano semplicemente scartate le teorie ritenute non valide e la questione era quindi rimasta aperta. La giustizia è compiere ciascuno il suo dovere ed esercitare la propria arte senza attendere ad alcun’altra cosa, l’ingiustizia è dunque la confusione e lo scambio di attribuzione fra le tre classi di cittadini: operai, guerrieri e governanti.  Questo capitolo però è importante per un ulteriore motivo, cioè che viene fornita la spiegazione della suddivisione dei compiti nello stato ottimale platonico e le caratteristiche che esso deve avere: lo stato deve essere caratterizzato da 4 virtù (che corrispondono a quelle che compongono l’anima), nonché la saggezza, il coraggio, la temperanza e la giustizia. La saggezza, intesa anche come capacità di guidare gli altri, risiede nella classe di cittadini meno numerosa, cioè nei reggitori dello stato; il coraggio si trova nella parte dei cittadini che combatte e guerreggia per la città e la temperanza che è un ordine e un dominio sui piaceri e sulle passioni, virtù sviluppata dalle classi minori quali dei contadini, dei mercanti ed artigiani.

“Ebbene, ripresi, di’ pure che è questo qual ch’io chiamo figliuolo del bene che lo generò simile a sé; e ciò che il bene è nel mondo intelligibile rispetto all’intelligenza e agli enti intelligibili, questo è il sole nel mondo visibile, rispetto alla vista e alle cose visibili”. […] Quello dunque che comunica la verità agli oggetti conoscibili e il potere di conoscerli a chi li conosce; di’ pure che è l’idea del bene.” Dopo aver espresso la sua definizione di giustizia nel libro quarto, Socrate, nel libro sesto spiega cosa sia per lui il bene, incitato da Adimanto. Per esporre tale concetto Socrate utilizza una metafora interessante, cioè che come il sole illumina gli oggetti visibili, così quello che comunica la verità degli oggetti conoscibili e il potere di conoscerli a chi li conosce è l’idea di bene. Il concetto di bene consiste quindi nella conoscenza delle idee.

“Immaginati che degli uomini stiano in una dimora sotterranea in forma di caverna…”  Proprio all’inizio del libro settimo si trova una delle allegorie più conosciute di Platone: il mito della caverna. Con esso Platone vuole fornire una rappresentazione concreta della sapienza e dell’ignoranza con un esempio. Il mito della caverna è ambientato in una caverna sotterranea, dove sono imprigionati degli schiavi con delle catene, che possono solamente guardare davanti a loro il muro dove sono proiettate le ombre delle persone che passano e di oggetti che tengono grazie a un fuoco acceso dietro i prigionieri. Quindi l’unica realtà che loro abbiano mai visto sono le ombre, tuttavia uno di loro riesce a liberarsi dalle catene e a raggiungere l’esterno della caverna, cioè il mondo da noi conosciuto costituito da persone, colori, natura, luce… La caverna rappresenta il nostro mondo, il mondo sensibile, le ombre visibili ai prigionieri rappresentano le immagini superficiali delle cose, le catene raffigurano invece l’ignoranza e le passioni che ci inchiodano al mondo falso e del ‘non essere’, solo grazie alla cultura e alla filosofia è possibile la ‘liberazione dello schiavo’. L’uomo può così uscire dalla caverna e vedere il mondo delle idee, cioè il mondo iperuranio, una realtà dominata dalla perfezione e dal bene.

“Grazie alla libertà che vi si gode, contiene tutte le forme di governo, e per chi voglia costituire uno Stato, ciò che noi ora appunto facevamo, pare che sia necessario venirsene in una città democratica e prescegliersi quel regime che gli piaccia di più, come se fosse un emporio di costituzioni, dove uno può recarsi a scegliere quella che preferisce per la repubblica da fondare.” Platone nel libro ottavo esprime che secondo lui la forma di costituzione meno peggiore (dato che tutte possono degenerare: oligarchia, democrazia e tirannide) sia la democrazia: essa contiene tutte le forme di governo, ci sono uomini governanti d’ogni sorta e presenta ogni varietà di caratteri. La democrazia è la migliore costituzione perché varia, quindi anche nel caso in cui i cittadini eleggano un governante che si mostra inefficace o immorale, possono comunque cambiarlo a differenza degli altri tipi di costituzione.

Ci sarebbero molti altri argomenti di cui si potrebbe trattare presenti in questo dialogo, tuttavia ho cercato di citare alcuni passaggi che mi hanno colpito o che ho ritenuto più importanti, anche se veramente, ce ne sono molti altri. I pensieri espressi in questo libro sono tutt’altro che banali, infatti non è stato sempre semplice comprenderli a fondo, ciononostante sono rimasta anche piuttosto sorpresa durante la lettura, poiché in alcuni capitoli sono presenti argomenti attuali come ad esempio la parità di genere: viene infatti espressa l’idea nel capitolo sesto che le donne possano ricoprire gli stessi incarichi degli uomini, nonostante siano più deboli ciò non deve giudicare il loro operato. Quello che però colpisce più di tutto è che ogni singolo argomento trattato è attuale: non c’è un tema di cui si parla nel libro che non sia presente anche oggi, questo è enormemente sorprendente se si pensa che esso fu stato scritto nel 380 a.C, fa realmente capire che le domande, i dubbi e le necessità degli uomini sono sempre state le stesse, sono universali. Come le emozioni.

Il filosofo austriaco Karl Popper, liberale e difensore della democrazia, scrive un libro intitolato “La società aperta e i suoi nemici” nel 1945, dedicato proprio a Platone. Popper critica il sistema di Platone che considera totalitario, poiché nell’ideale stato platonico ognuno deve limitarsi al compito attribuitogli dai custodi senza poter sperimentare o cimentarsi in attività differenti dalla propria, che si basa appunto sulla virtù sviluppata dall’anima. Egli ritiene infatti che una buona società democratica è una società aperta al cambiamento, alla variazione, soltanto così questa può migliorare di volta in volta. Pertanto, secondo Karl Popper, lo stato descritto da Platone è chiuso, gli individui non godono di nessuna libertà, mentre la società aperta è costantemente soggetta al rinnovamento. D’altra parte però non sono sicura che questa contestazione sia pertinente dal momento che Platone stesso ribadisce più di una volta che la miglior forma di governo per uno Stato è la democrazia, proprio garantisce un ricambio dei governanti. Probabilmente Platone si stava riferendo non tanto al tipo di governo in sé e ai reggitori, come se si trattasse una casta a sé, l’unica a cui poteva essere affidato il potere, ma più al tipo di organizzazione sociale più idoneo per garantire il miglior funzionamento dello Stato, ovvero a quella divisione dei compiti tra i cittadini lavoratori, i custodi e i governanti che sarebbe secondo lui funzionale a questo fine. Platone cioè non vuol dire che solo un tipo di cittadini ha il diritto di governare, ma solo che sarebbe auspicabile che le persone che hanno incarichi di governo avessero un’anima prevalentemente razionale, piuttosto che una irascibile o concupiscibile, dato che il buon governo della Repubblica richiede un buon uso della Ragione.

 

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