I Karamazov e l’imperativo della coscienza12 min read

di Giorgia Calabrese

   Nella premessa a I fratelli Karamazov, Dostoevskij chiama Aleksej Fedorovic Karamazov il suo eroe. Tuttavia egli non spiega il motivo di questo appellativo, lasciando a chi legge il compito di scoprirlo. E infatti, raccontando le vicende della famiglia Karamazov, l’autore scatena nella mente del lettore una moltitudine di domande, alle quali il lettore stesso, attraverso il suo spirito critico, dovrà offrire una risposta. Tutto si incentra sull’animo umano che Dostoevskij penetra in profondità, evidenziando aspetti del carattere dei suoi personaggi talvolta opposti, ma tuttavia racchiusi dentro una stessa anima.

   Questo grande romanzo si sviluppa attorno ad un diverbio tra il padre Fedor Pavlovic Karamazov e il figlio maggiore, Dimitrij, che si scontrano a causa di una misteriosa eredità e una donna desiderata ardentemente da entrambi, Grusenka. Senza dilungarsi troppo, bisogna dire brevemente quale sia la storia di questo padre e il modo in cui si è originata questa “emblematica” famiglia.

   Fedor Pavlovic ha avuto due matrimoni, dal primo è nato il figlio Dimitrij, dal secondo Ivan ed Aleksej. Rimasto poi vedovo, durante una delle sue serate all’insegna del bere, ha dato vita ad un quarto figlio, mai riconosciuto come suo, Smerdjakov, la cui madre Lizaveta era conosciuta per essere un’analfabeta, abituata a dormire nei giardini altrui. Egli non si è preso cura di nessuno di questi, arrivando quasi a dimenticarsi della loro esistenza e continuando la sua vita da cinico lussurioso fintanto che, nella piccola cittadina in cui abitava, non si riuniscono tutti i protagonisti del romanzo.

   Dimitrij, il primo figlio, si rivela fin dall’inizio il più simile al padre: militare che ha prestato servizio nei pressi del Caucaso, spende i soldi dell’eredità della madre per dedicarsi ad una vita leggera, ma torna poi nella cittadina natale, convinto di non aver ricevuto tutto il denaro della “misteriosa” eredità.  Appare poi Ivan, il secondo figlio, uomo dal grande spirito critico e dall’eccezionale razionalità, il quale, entrato in contatto con la cultura europea e con le rivoluzionarie idee della massoneria, si converte all’ateismo. È proprio questo personaggio ad essere fortemente in contrasto con il più giovane dei Karamazov, Alekseij, profondamente attaccato alla figura della madre che ha perduto mentre era ancora in fasce. Si può infatti supporre che sia proprio la mancanza della figura materna a spingere il giovane verso la ricerca della verità e del bene e ad indossare quindi l’abito monacale.

   Ma cosa rappresentano tutti questi personaggi? Cosa ci vuole raccontare Dostoevskij? Fedor Pavlovic Karamazov, il “padre di famiglia”, viene presentato come “una delle teste più pazze di tutto il distretto”. L’autore precisa però che “non si tratta di stupidità (la maggioranza di questi pazzi è abbastanza intelligente e furba), ma proprio di insensatezza, anzi di una certa insensatezza speciale,nazionale”: ed è proprio il padre ad essere il simbolo di quello spirito karamazoviano sul quale è incentrato tutto il romanzo, spirito predisposto alla lussuria, alla gola, allo sperpero, all’avarizia e all’avidità. Egli non percepisce alcun obbligo spirituale verso i propri figli, si scorda talvolta della loro stessa esistenza e li invita addirittura a cedere alla lussuria, alla vita così detta “leggera”. “La sua parte spirituale appare morta, mentre la sua sete di vivere si rivela straordinaria”; così afferma l’autore, che con la rappresentazione di quest’uomo, privo di una vera e propria o coscienza interiore, smaschera e svela la tipica figura paterna dell’800, carente di affetto e concentrata solamente sul denaro, considerato l’unico mezzo per poter preservare il proprio essere e vivere una vita “dignitosa”.

   Non a caso nel romanzo, spetta a questo un’orribile fine: ucciso dal figlio mai riconosciuto, viene lasciato a terra addirittura derubato, manifestando così, con la sua morte, la decadenza di quella figura paterna diffusa sia in Russia che in Europa. E si svela quindi il significato di quell’insensatezza “nazionale” e l’invito di Dostoevskij a riscoprire e coltivare i valori del nucleo familiare.

   Più complessa la figura di Dimitrij, la cui anima si percepisce solamente alla fine del romanzo, nel momento in cui il lettore scopre chi realmente abbia commesso l’omicidio del padre, per il quale egli viene ugualmente e ingiustamente condannato.

   Durante l’arringa del procuratore Ippolit Kirikillov, egli viene definito come il rappresentante della Russia istintiva, primitiva, che ha in sé l’idea del bene e del male ma che tuttavia, nei momenti di rabbia e di foga, seguendo una spinta irrazionale, si abbandona all’indole animalesca propria di ogni uomo. Non essendo a conoscenza della verità e dunque convinto della sua colpevolezza, il procuratore analizza la sua psicologia e crede di aver istituito una perfetta analogia tra Dimitrij e la grande nazione, ma sebbene questa analogia possa essere ritenuta vera, è l’argomentazione che il lettore deve modificare: il figlio maggiore rappresenta infatti, certamente, quella Russia istintiva di cui si parla, ma è l’accezione negativa a dover essere riconsiderata. Durante la notte del misfatto,  Dimitrij si trova di fronte al padre da lui odiato, la cui visione fa scaturire in lui un’intolleranza, una rabbia e un’avversione straordinaria, che lo porterebbero sicuramente all’omicidio, se solo istintivamente non “sconfiggesse” il male di cui si parlava prima.

   Viene dunque da pensare che quella Russia istintiva non sia destinata all’abbandonarsi al male, ma che essendogli comunque incline, irrazionalmente fugga e scappi da quell’indole animale, propria dell’uomo, non a caso definito da Aristotele “Animale razionale”.

   Di fronte a questa piccola analisi, mi viene da chiedermi se sia forse possibile che qui Dostoevskij lasci intravedere un bagliore di speranza per il suo paese: sembra infatti che egli voglia comunicare, o meglio sottolineare, la grande possibilità della Russia, la quale, avendo naturalmente in sé la capacità di fuggire dal male, può imparare a conoscere il bene.

   Si incontra poi il personaggio di Ivan Fedorovic Karamazov, un uomo colto ed intelligente che, viaggiando per tutta l’Europa, è entrato in contatto con le idee e le filosofie del tempo che gli hanno permesso di sviluppare uno spirito critico, volto soprattutto all’ambito religioso.

   Egli crede infatti che se fosse l’uomo ad aver inventato Dio, e non Dio ad aver plasmato l’uomo, questa invenzione risulterebbe straordinaria per il fatto che l’uomo è “un animale selvaggio e cattivo” ed un’idea talmente sacra risulterebbe quasi troppo onorevole per questo essere crudele. Ma le sue riflessioni non si fermano qua.

   Egli procede ed espone infatti la leggenda, creata da lui stesso, del Grande Inquisitore: si tratta di un racconto ambientato a Siviglia, durante il periodo dell’Inquisizione quando erano un avvenimento quotidiano gli atti di autodafé, ovvero la condanna degli eretici.Il Grande Inquisitore, un cardinale, detiene tra le sue mani uno smisurato potere ed ha tutta l’approvazione del popolo, il quale lo segue in modo ostinato, persino quando all’apparizione di Cristo egli ordina che questo non venga seguito. Il cardinale lo rinchiude poi in una cella per tutta la notte, con l’intento di condannarlo la mattina seguente, ma inizia con lui una lunga conversazione nella quale a proferire parola è solamente lui.

Egli accusa Cristo di aver commesso un grande errore che gli ha sottratto il titolo di salvatore del popolo: questo, secondo il Grande Inquisitore, sacrificandosi per l’essere umano e donandogli la libertà, lo ha condannato ad una condizione di eterna infelicità. La libertà di fede per la quale Gesù avrebbe combattuto si rivela dunque il suo errore più grande, e questo perché l’uomo è stato creato ribelle, in una condizione di infelicità, “curabile” solo grazie ad un’autorità che lo sottometta e gli imponga delle rigide regole: un’autorità che Cristo ha rinnegato per la libertà umana.

   Egli viene dunque accusato di egoismo e di aver rifiutato quei tre principi capaci di permettere all’uomo di governare la propria coscienza e di professare la religione cristiana: il mistero, il miracolo, l’autorità.

   Privata di questi tre principi, l’umanità è stata lasciata in balia della propria coscienza la quale, non conoscendo i confini del bene e del male e oppressa dall’immensa libertà di scelta, è arrivata a dubitare persino della figura di Cristo stesso.

   La natura umana, continua il Grande Inquisitore, è nata debole, umile, ignorante, fragile, incapace di dominarsi senza un’autorità che le dettasse le regole da seguire. Ma sono proprio il cardinale e la società dell’Inquisizione ad aver raccolto nelle proprie mani il potere e ad essersi messe a capo del popolo, donandogli un briciolo di felicità e sollevandolo dal peso della propria coscienza. Il racconto termina in modo emblematico: Cristo, rimasto in silenzio durante tutto il colloquio e con gli occhi immobili verso il cardinale, si alza improvvisamente e lo bacia. Dopo questo gesto straordinario, viene liberato con l’ordine di non tornare mai più sulla terra.

   Rimane dunque un emblema il significato di questo bacio, simbolo d’amore universale, che potrebbe forse indicare l’unica via con la quale si raggiunge la fede, ovvero il cuore, o meglio, potrebbe suggerire che la fede ha dimora nel cuore umano, e non nella libertà di scelta.

   Ma ciò che è evidente è che Cristo ancora una volta sceglie l’amore.

   Con l’affermazione “se Dio non esiste, tutto è permesso”, è ancora Ivan a svolgere un ruolo importante all’interno del romanzo: attraverso questo suo pensiero, è infatti lui a spingere, forse consapevolmente, Smerdjiakov verso l’omicidio del padre.

   Si tratta di un concetto che trova le sue radici nel bisogno umano di conoscere ciò che si cela dietro la morte, più propriamente nel bisogno di garantire l’immortalità dell’anima.

   “Se distruggete nell’uomo la fede nella propria immortalità, subito si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non ci sarà più niente di immorale, tutto sarà permesso, persino l’antropofagia.” Così afferma Ivan, il quale ritiene che, una volta negata l’esistenza di Dio e di conseguenza l’immortalità spirituale, o meglio cancellata dall’umanità l’idea di Dio, l’uomo, libero da qualsiasi vincolo, possa elevarsi ad uno stato di uomo-dio, nel quale non esiste alcun tipo di regola, di vincolo, di restrizione (non esistendo al di sopra di Dio alcuna regola).

Si tratta quindi di un’ipotetica epoca futura nella quale l’uomo-dio diventa il sovrano del mondo, un’epoca nella quale si sfrutta ogni dono della terra e si ama pur avendo la consapevolezza della fugacità della vita.

   Ed è proprio questo a spingere il freddo e insensibile calcolatore Smerdjiakov ad uccidere Fedor Pavlovic Karamazov: il principio appunto del “tutto è permesso”.

   Questa incredibile razionalità è però contrastata dalla passione e dalla religiosità dello starec Zosima il quale, dopo aver ascoltato la filosofia di Ivan e aver intuito i suoi fortissimi contrasti interiori, lo benedice amorevolmente.

   La figura dello Starec è dunque il simbolo di quella religiosità pura ed innocente che tende ad accogliere e confortare persino coloro che hanno commesso un peccato, o che dubitano addirittura dell’esistenza di Dio: lo stesso monaco ha infatti avuto una vita turbolenta prima della conversione che lo rende, a mio parere, un personaggio simile al Fra Cristoforo dei Promessi Sposi. Ma è ancora Zosima ad accogliere nel monastero il giovane Karamazov: egli lo affianca nella sua vita spirituale e gli indica la strada che Dio gli ha riservato, una strada non semplice, in quanto solamente alla fine della sua vita, dopo aver fatto esperienza del mondo, egli sarebbe tornato al monastero.

   Riporto qui la celebre frase rivolta al giovane dallo Starec, il quale afferma che “nel dolore avrebbe trovato la felicità”.

   Rimane adesso la sola figura di Aleksej Karamazov, il grande eroe di Dostoevskij, che appare come un giovane candido, immacolato, fortemente attaccato alla figura della madre, scomparsa precocemente: egli si rivela infatti capace di provare un amore cieco verso la sua famiglia, cercando di gestire i drammi dei fratelli e del padre;  anch’essi d’altra parte provano una profonda attrazione verso il giovane, del quale desiderano continuamente  l’opinione e il consiglio, intuibili dal suo sguardo profondo, limpido e rivelatore, proprio come la sua fede.

   Se quindi Dimitrij è l’uomo della passione ed Ivan della ragione, è Aleksej quello del sentimento: egli arde per fare il bene e lo dimostra soprattutto con l’intensità con la quale partecipa ai drammi dei bambini, soprattutto quello di Iluša e Kolija.

   È quella dei bambini una delle tematiche fondamentali del romanzo, collegata strettamente alla questione religiosa; lo stesso Ivan si chiede infatti coma possa Dio permettere che esista la sofferenza in esseri tanto puri ed innocenti come i bambini.

   Questi, trovandosi di fronte ad una società fortemente influenzata dalla cultura europea, da quella molteplicità di idee che si scontrano e si confutano di continuo, sentono fin dalla giovane età il bisogno di diventare adulti e “prender partito”, lasciandosi scappare prematuramente l’unico periodo della vita in cui è possibile essere felici e spensierati: è questo il caso di Kolija il quale afferma di essere un socialista, senza sapere in cosa consista questo movimento.

   È invece il simbolo della corruzione e del decadimento della società ottocentesca, Ilusja, il figlio del capitano Snëgirev, che dopo essersi ammalato a causa dell’offesa subita dal padre, muore: si tratta di un bambino completamente innocente, dal cuore magnanimo che, non avendo ancora fatto esperienza della cattiveria degli uomini, né dell’egoismo e della brutalità del tempo, non riesce a sostenere l’umiliazione del padre, da lui amato incredibilmente, non comprendendo nemmeno i motivi dell’offesa.

   Non a caso, è proprio con i bambini e Alekseij che termina il romanzo: un addio formale da parte del giovane, in procinto di partire per mete a lui stesso sconosciute, e un invito a non dimenticare le avventure passate insieme.

   L’autore conclude così il suo capolavoro, con una sorta di esortazione al ricordo della purezza e del candore giovanile, e con un “eroe” la cui vita non troverà mai pagine in cui essere scritta: Dostoevskij morirà infatti prima di poter iniziare a raccontare la storia del più piccolo dei Karamazov, lasciando così aperta la questione del perché lui chiami Alekseij il suo eroe.

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