Mercanti e straccioni a Lucca nel XVI secolo14 min read

di Pietro Benedetti

Nella notte tra il 30 aprile ed il primo maggio 1531 gruppi di giovani tessitori variamente armati, sotto le insegne di un drappo nero stracciato (che darà il nome al movimento degli straccioni), scesero in strada per protestare contravvenendo alle norme della Repubblica che vietavano gli assembramenti, per giunta armati. Nel pomeriggio del primo maggio una folla di artigiani, setaioli e popolani si riversarono in gran numero in piazza San Francesco, nel centro di Lucca, per rivendicare l’abrogazione di alcune disposizioni normative che avevano modificato l’attività lavorativa del comparto della tessitura, attività che aveva una massiccia presenza di addetti e che costituiva il settore preminente dell’economia della Repubblica di Lucca; tale attività  le consentì di fatto, attraverso le esportazioni, di ottenere uno sviluppo economico capace di produrre elevati redditi, reinvestiti in attività finanziarie. Funzione questa che aiuterà la piccola Repubblica a mantenere la sua indipendenza, in considerazione della capacità di sostenere, attraverso prestiti, le richieste di grandi monarchie europee, imperiali e non.

Fin dalle prime pagine del suo saggio (La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e Mercato, Salerno editrice, Isola del Liri (Fr), 2020, pp.190) Renzo Sabbatini ci anticipa la spiegazione delle cause di questa rivolta che lui leggerà nella dialettica tra modernità (libero mercato) e conservatorismo (pace sociale). Brevemente l’autore contestualizza la situazione politico economica in cui avvengono i fatti.

La Repubblica di Lucca, governata da un’oligarchia di famiglie, strettamente connesse alle funzioni mercantili, accetta la proposta dei mercanti di apportare modifiche legislative tali da rendere i filati prodotti competitivi sui mercati europei. I mercanti lucchesi infatti svolgevano la loro attività in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Inghilterra fino all’attuale Polonia e stavano assistendo alla difficoltà di consolidare la loro presenza in quel mercato perché la concorrenza si realizzava incidendo sul valore dei prezzi.

I mercanti quindi propongono ed il Consiglio della Repubblica accetta, misure che: 1) proibiscano ai maestri testatori di lavorare in proprio, con uno dei tre telai loro consentito 2) spostino dalla corporazione dei testatori a quella dei mercanti la titolarità a mettere un sigillo di garanzia sui prodotti pronti per vendere 3) diminuiscano in modo significativo “le manifatture” cioè i compensi assegnati per la tessitura dei mercanti, situazione questa  che, a cascata, si ripercuote sugli operai abbassando notevolmente il valore dei loro compensi.

Quest’ultimo punto ci richiama più degli altri al tema dell’etica del mercato. Non stabilire un “price cap” per certe lavorazioni rischia la corresponsione di salari eccessivamente bassi (si veda per esempio il tema attuale delle conseguenze patite dai raccoglitori di pomodori nell’agricoltura). In buona sostanza grazie a queste modifiche i mercanti non si limitano all’attività della vendita ma incidono ed interferiscono pesantemente sull’attività di produzione fino ad allora ad appannaggio della corporazione dei testatori, creando uno squilibrio sociale che sposta risorse dai testatori ai mercanti.

Tra le varie e numerose fonti citate da Sabattini, il coevo Giuseppe Civitali con la sua Storia di Lucca ci accompagnerà per tutta l’opera descrivendo gli avvenimenti con un occhio abbastanza distaccato, con cui tratteggia i passaggi più significativi che hanno caratterizzato gli undici mesi in cui si svolge la vicenda narrata. È proprio Civitali a mostrarci come la differenziazione nell’approccio al problema sollevato dalla rivolta ci presenta una classe dirigente divisa tra chi, in nome del libero mercato, è disponibile a interrompere quel rapporto paternalistico che vede nobili e plebei uniti nella comune difesa della libertà della città e chi invece ritiene che “la fuga in avanti” effettuata accettando le richieste dei mercanti, sia un elemento che perturba la tranquillità della Repubblica. (Su questa linea sia Civitali, sia più diffusamente Giudiccioni)

Come vedremo la seconda impostazione prevarrà e consentirà, nei secoli successivi e fino alla fine della Repubblica, di mantenere un equilibrio tra le classi sociali. In sottofondo emerge sempre il tema della libertà come valore assoluto da difendere da tutti e ad ogni costo: tutti infatti traggono vantaggio dal vivere senza farsi soggiogare da un potere esterno. Ma questo assioma non ha senso se per avarizia (per dirla con Giovanni Guidiccioni) si permette che una parte degli abitanti della Repubblica viva in condizioni eccessivamente disagiate. Compito morale della Repubblica è quindi operare in modo da sostenere le classi meno abbienti. Con i canoni interpretativi moderni si potrebbe dire che è necessario un bilanciamento degli interessi in campo.

Il primo maggio in piazza San Francesco sono presenti artigiani ed operai del settore delle filature, cui si accodano “borghesi” (notai, commercianti e d artigiani) che sono tenuti fuori dal governo della città e che invece rivendicano un ruolo politico. Accanto a loro è presente anche molta povera gente esasperata dall’aumento dei prezzi, causato da una crisi economica europea congiunturale e dalla guerra di Firenze le cui conseguenze Lucca aveva patito, fosse solo per la contiguità territoriale (il tema dei profughi fiorentini ospitati a Lucca ed il tema dell’aumento dei prezzi a causa della guerra, sono elementi che purtroppo ritornano anche nelle nostre giornate).

In questa “strampalata” assemblea di persone non abituate a muoversi nel rispetto degli Statuti e dei regolamenti che governano la Repubblica, prende la parola un tessitore, Matteo Vannelli, che pronuncia un intervento retorico, quasi un’invettiva[1]. Vanelli richiama la necessità di proposte (non lamenti ma soluzioni) e sottolinea la scarsa sensibilità mostrata dai governati quasi a volere la vita stessa dei loro sottoposti (Ora non li sazia tutta la nostra fortuna: han sete del nostro sangue, han fame della nostra vita).

Un gruppo di diciotto cittadini nominati da quell’assemblea (capitani) si recheranno a Palazzo (Palazzo Ducale sede del governo della Repubblica) per richiedere l’abolizione delle proposte causa della protesta.

A questo punto inizia una dinamica che durerà undici mesi e che cesserà nell’aprile del 1532 con la restaurazione. La dinamica è quella in cui le istituzioni Repubblicane accolgono le richieste, abbuonano le pene per l’infrazione delle norme sull’ordine pubblico ed il “popolo” accetta e si calma.

Successivamente altre richieste ed altre dinamiche che si svolgono ciclicamente con le stesse modalità. Sostanzialmente e sinteticamente possiamo ricordare che le richieste di carattere economiche connesse al comparto dei setaioli vengono accolte, come pure misure di carattere generale inerenti al prezzo del pane e del grano, con una differenziazione tra prezzo del prodotto locale – più caro e più buono – e il prezzo del prodotto importato.

Progressivamente vengono accolte anche le richieste di maggiore rappresentanza politica (Il consiglio che era composto da 90 membri, 30 per ognuno dei tre terzieri (San Paolino, San Salvatore e San Martino) portando il consiglio a 120 con un aumento di dieci unità per terziere da scegliersi tra le famiglie della nuova borghesia che precedentemente era fuori.

Qui è interessante vedere – e Sabbatini lo spiega bene- come il popolo minuto venga convinto ad avere un interesse a che il consiglio di cui non fanno parte venga allargato, perché i nominati di nuova rappresentanza tutelerebbero i lori diritti e garantirebbero le loro aspettative. (anche questo aspetto è di un’attualità pregnante).

Questa dialettica va avanti in un contesto in cui la Repubblica smuove tutte le sue armi diplomatiche per evitare che questa fase di inquietudine istituzionale metta a repentaglio l’indipendenza a vantaggio di Firenze. In questo senso la Repubblica si barcamena tra un ottimo rapporto con la Francia, sede dei maggiori mercati ove viene svolto il commercio delle sete e l’imperatore Carlo V la cui tutela è un elemento imprescindibile. Ricorrono ambascerie, regali, lettere, spiegazioni di certi comportamenti. La chiave di lettura diplomatica è molto interessante e ben argomentata nel libro attraverso la citazione di lettere all’imperatore sulle vicende di Lucca (molte quelle di Andrea Doria delle Repubblica di Genova[2]) nonché attraverso i commenti sulla presenza in città di un ambasciatore dell’imperatore in città, tale Marzilla, personaggio temuto e del quale la Repubblica cerca di ottenere buoni uffici ma del quale cercherà di fare a meno a pochi mesi dalla chiusura della rivolta.

È interessante notare come molte delle famiglie aristocratiche che in pubblico perorano la causa della libertà della Repubblica, in privato scrivano all’imperatore chiedendo un intervento armato e la nomina di un governatore. Qualora Carlo V avesse acconsentito a tali richieste, la storia della Repubblica avrebbe probabilmente avuto altro esito ed altra minore durata.

Sotto traccia sono presenti le grandi famiglie che nelle sei miglia e nelle vicarie (cerchi concentrici in cui si articola la repubblica) mantengono schiere di collaboratori (contadini ed operai) pronti a tutto, anche a trasformarsi in soldati, pur di ristabilire un ordine richiesto dai loro “padroni”.

Dopo l’ennesimo episodio di violenza accaduto fuori della cattedrale di San Martino nella domenica in albis (dopo pasqua) 9 aprile 1532, festa della libertà della Repubblica (l’8 aprile 1369 il popolo lucchese ritrovò la sua perduta indipendenza grazie alla discesa in Italia dell’imperatore del Sacro Romano Impero – Carlo IV di Boemia – che liberò Lucca dal giogo pisano dopo oltre 40 anni. Da allora la domenica dopo pasqua si corda quell’evento), le condizioni erano mature per il ristabilimento dello status quo.

Truppe di contadini ed operai provenienti dalla campagna e dalla montagna, sotto il comando sostanziale del Buonvisi, di nota ed importante famiglia, grazie ad un prete che riuscì a far aprire porta San Donato, fecero ingresso in città, sconfiggendo i rivoltosi che, nel tempo, erano comunque notevolmente diminuiti a livello di numeri.

Anche in questa fase straordinaria, la Repubblica non abdica all’adozione delle procedure previste dai propri regolamenti e codici. La sera prima infatti una grande assemblea di circa mille persone si raduna nel palazzo per un “colloquio” istituto giuridico che era previsto dagli statuti per avviare una sorta di fase istruttoria partecipativa, prima di giungere ad una decisione. L’assemblea è rappresentativa anche di molti che nel maggio precedente avevano supportato la rivolta ma adesso, anche in virtù di modifiche ordinamentali che rimarranno e che implicano un allargamento della base politico-decisoria, scelgono di mettere un punto alla vicenda degli straccioni.

Il giorno successivo, sconfitti i rivoltosi, Martino Buonvisi, capo dei restauratori si presenta a Palazzo e qui assistiamo ad una scena descritta in modo particolareggiato da Padre Bartolomeo Beverini[3], si cui torneremo. I suoi uomini inneggiano al Buonvisi come ad un nuovo capo assoluto della città.  Il gonfaloniere allora lo interroga per capire se è venuto da amico o da nemico. Traspare qui in modo evidente la supremazia dello Stato sul singolo. La Repubblica in luogo della Signoria. Il Gonfaloniere addirittura lascia un pertugio per far entrare nel Palazzo solo una persona, mostrando in maniera plastica che le schiere di armati al seguito di Buonvisi non sarebbero potuti entrare.

Entrerà dunque da solo, lasciando fuori la spada che ha usato per difendere la Repubblica, confermando i suoi onesti propositi e dissociandosi dalle grida dei suoi. Dopo questi avvenimenti, in maniera per noi alquanto imprevista, quegli stessi governanti che avevano tollerato le rivolte ed avevano distribuito con larghezza indulti e cancellato pene in nome del “quieto vivere”, iniziano una forte azione repressiva che porterà alcuni dei rivoltosi alla forca, altri all’esilio, altri al carcere. Bisognerà attendere il 1536 con la visita a Lucca dell’imperatore Carlo V per dire superata quella pagina, anche se la lezione degli straccioni resterà nella mente e nella coscienza dei governanti fino al 1799 anno in cui l’antica Repubblica oligarchica di Lucca cesserà la sua esistenza.

Un punto di vista originale su tutta la vicenda è quello dell’ecclesiastico Giovanni Giudiccioni che con la sua Orazione ai nobili di Lucca leva una voce autorevole contro l’aristocrazia della città. Il suo è un intervento che potremmo definire conservator-paternalistico: venne scritto qualche anno dopo e probabilmente non fu mai esposto direttamente a Lucca, città che aveva lasciato, anche se abbiamo notizia che la stampa dello stesso, negli anni 50 del cinquecento, creò qualche malumore tra gli aristocratici lucchesi.

Il senso del suo intervento parte dalla necessità che si parli di ciò che è avvenuto perché alcuni non parlano per paura (temenza), altri per odio, altri per corruzione. Ritiene essere cosa grata a Dio rompere il silenzio [4]. Fa chiarezza allora su ciò che è avvenuto e richiama a seguire il modus operandi dei governanti nei tempi antichi, modus che deve essere seguito ancor oggi e che alcuni nobili hanno tradito in nome dell’avarizia, che lui considera una sorta di “Moloch” in nome del quale tutto è permesso. La pace sociale ed il buon governo sono preservati dall’assenza di bisogno che crea malizia, audacia, frode e violenza[5].

Oltre all’avarizia c’è un altro male da cui guardarsi, e cioè le eresie. Egli ritiene che le idee riformate, diffuse in Europa e apprezzate dai mercanti, siano collegate ad un atteggiamento antipopolare: da mercanti infatti si cerca il massimo profitto e per far ciò si tende a fruttare i lavoratori, anche perché la fortuna economica ha una valenza religiosa positiva per i protestanti.

Attraverso un uso dell’antinomia “noi/voi” delinea attraverso l’artificio retorico di far parlare gli antichi i comportamenti di coloro che agiscono per il bene comune e quello invece di coloro che agiscono per il proprio interesse, mettendo a rischio la pace sociale della città e la libertà della Repubblica[6]. A rafforzare le sue argomentazioni utilizza il richiamo alle buone pratiche da seguire e osservate nell’antichità: si evocavo le leggi di Tebe contro le commistioni tra potere politico e potere economico, tema attuale ed oggigiorno declinato come conflitto di interessi.

Il saggio di Sabbatini consente dunque di esaminare approfonditamente il tema, ma anche gli altri due libri sono utili approfondire singoli aspetti.  In ogni caso è sorprendente trovare in una storia di circa cinquecento anni fa numerosi agganci a tematiche attuali, come il rapporto tra mercato e individuo, l’etica dell’impresa, gli effetti della guerra, le tendenze diplomatiche “ambigue”, il rapporto e condizionamento tra città e campagna/montagna.

Nell’opera di Sabbatini tutto risulta importante, tutto risulta da approfondire, si ricerca pervicacemente la dimostrazione documentale di tutto ciò che si dice. Si ricercano doppie, triple, talvolta quadruple citazioni per confermare la giustezza di un assunto. Se da un lato questo approccio costituisce un merito dell’autore a cui bisogna riconoscere un approccio scientifico rigoroso, dall’altro viene richiesto al lettore uno sforzo applicativo significativo. Le altre due opere scontano invece un problema di mera interpretazione lessicale, considerato che dei due documenti, l’uno è pressoché coevo ai fatti narrati, l’altro è stato tradotto dal latino all’italiano con un lessico preunitario nel periodo 1829/1833 da Pietro Giordani. Mentre la prosa di Mansueto Lombardi Lotti per le cronache del Beverini assume un valore didascalico di semplice lettura, quella di Dionisotti per l’Orazione del Giudiccioni prevede due stesure, una del 1944 ed una più recente del 1993. La prima particolarmente utile per la contestualizzazione dell’Orazione richiede una significativa concentrazione per la comprensione dei contenuti della stessa.

La rivolta degli straccioni ed il loro rapporto con i mercanti costituisce un trionfo dell’economia morale sul libero mercato. Le famiglie che formano la base sociale su cui si fonda il governo repubblicano, accettano “decisamente” la supremazia delle regole della produzione manufatturiera rispetto ai principi del libero mercato, applicato nel contesto del commercio internazionale.

L’esito finale della vicenda e gli sviluppi successivi non ci sorprendono più di tanto, in quanto risultano coerenti con la storia di una Repubblica che farà dell’equilibrio e del low profile un tratto distintivo, per certi versi presente ancor’oggi.

Forse è proprio questo a stupirci: in un’epoca in cui le dinamiche sociali nascono e muoiono in tempi relativamente brevi, impressiona come nonostante tutto, la vita di una comunità risulti caratterizzata e condizionata dal suo passato.

 

Renzo Sabbatini – La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e Mercato. Salerno editrice. Isola del Liri (Fr). luglio 2020. pp.190.

Giovanni Giudiccioni – Orazione ai Nobili di Lucca a cura di Carlo Dionisotti. Adelphi Editore. Milano 1994. pp 139.

Pietro Giordani – La sollevazione degli straccioni (dagli “annali lucchesi” del Padre Bartolomeo Beverini – Libro XIV) a cura di Mansueto Lombardi Lotti”. Maria Pacini Fazzi Editore   Lucca 1970. pp.107.

 

 

 

 

 

 

[1] Pietro Giordani – La sollevazione degli straccioni (dagli “annali lucchesi” del Padre Bartolomeo Beverini – Libro XIV) a cura di Mansueto Lombardi Lotti”. Maria Pacini Fazzi Editore   Lucca 1970 pp. 32-33.

[2] Renzo Sabbatini – La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e Mercato. Salerno editrice. Isola del Liri (Fr). luglio 2020 p.131.

[3] Pietro Giordani – La sollevazione degli straccioni (dagli “annali lucchesi” del Padre Bartolomeo Beverini – Libro XIV) a cura di Mansueto Lombardi Lotti”. Maria Pacini Fazzi Editore   Lucca 1970 pp.95-96.

[4] Giovanni Giudiccioni – Orazione ai Nobili di Lucca a cura di Carlo Dionisotti. Adelphi Editore. Milano 1994 p.109.

[5] Ivi, p.114.

[6] Ivi, p. 117.

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