Ronad Barthes e l’amore ai tempi del Simposio

di Alissa Piconcelli

   Roland Barthes è uno scrittore, critico letterario e saggista francese (1915-1980). Tra le opere più importanti ricordiamo Il grado zero della scrittura (1953), Miti d’oggi (1957) e La camera chiusa (1980). Frammenti di un discorso amoroso fu pubblicato nel 1977 con l’intento di rappresentare un manuale per gli innamorati.  Al suo interno si trovano molti riferimenti ad altri libri di altri autori, come I dolori del giovane Werther di Goethe, il Simposio di Platone, riferimenti a Nietzsche e Freud. Barthes sostiene che l’amore si manifesti attraverso il linguaggio e di conseguenza la caratteristica principale dell’innamorato è quella di parlare di continuo del sentimento che prova ma il linguaggio non può afferrare un sentimento del genere e ciò fa risultare il modo di esprimersi insufficiente.

   Barthes prende in esame delle parole che fanno riferimento alla sfera amorosa e le commenta, aggiungendo riferimenti agli altri autori. Uno spazio particolarmente notevole è dedicato –  dato che si parla di amore era inevitabile –  al Simposio di Platone.

  Questo brano parla del vestiario del soggetto e del modo in cui si prepara per vedere il suo amato:

   “Socrate: <<mi sono fatto bello, per andare bello da un bello.>> Io devo rassomigliare a chi amo. Io postulo (ed è questo ciò che mi delizia) una conformità di essenza fra l’altro e me. Immagine, imitazione: faccio il miglior numero possibile di cose come l’altro. Io voglio essere l’altro, voglio che lui sia me, come se noi fossimo uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelle, giacché il vestito non è altro che il liscio involucro di quella materia coalescente di cui il mio Immaginario amoroso è fatto”. La parola di questo capitolo è abito, che ha il compito di suscitare un ricordo o un’emozione tramite la ricordanza del vestito indossato dal soggetto in occasione dell’incontro amoroso per sedurre l’amato. Socrate si era preparato per andare a cena a casa di Agatone, invitato a celebrare una vittoria. A chi non è mai capitato di vestirsi bene per un’occasione importante, come un appuntamento con la persona che ci piace? L’atto di curare la propria immagine è istintiva poiché si tende ad “entrare nell’occhio” di colui che ci piace e se si riesce nell’impresa, il fatto di vestirsi bene diverrà un’azione automatica.

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I Karamazov e l’imperativo della coscienza

di Giorgia Calabrese

   Nella premessa a I fratelli Karamazov, Dostoevskij chiama Aleksej Fedorovic Karamazov il suo eroe. Tuttavia egli non spiega il motivo di questo appellativo, lasciando a chi legge il compito di scoprirlo. E infatti, raccontando le vicende della famiglia Karamazov, l’autore scatena nella mente del lettore una moltitudine di domande, alle quali il lettore stesso, attraverso il suo spirito critico, dovrà offrire una risposta. Tutto si incentra sull’animo umano che Dostoevskij penetra in profondità, evidenziando aspetti del carattere dei suoi personaggi talvolta opposti, ma tuttavia racchiusi dentro una stessa anima.

   Questo grande romanzo si sviluppa attorno ad un diverbio tra il padre Fedor Pavlovic Karamazov e il figlio maggiore, Dimitrij, che si scontrano a causa di una misteriosa eredità e una donna desiderata ardentemente da entrambi, Grusenka. Senza dilungarsi troppo, bisogna dire brevemente quale sia la storia di questo padre e il modo in cui si è originata questa “emblematica” famiglia.

   Fedor Pavlovic ha avuto due matrimoni, dal primo è nato il figlio Dimitrij, dal secondo Ivan ed Aleksej. Rimasto poi vedovo, durante una delle sue serate all’insegna del bere, ha dato vita ad un quarto figlio, mai riconosciuto come suo, Smerdjakov, la cui madre Lizaveta era conosciuta per essere un’analfabeta, abituata a dormire nei giardini altrui. Egli non si è preso cura di nessuno di questi, arrivando quasi a dimenticarsi della loro esistenza e continuando la sua vita da cinico lussurioso fintanto che, nella piccola cittadina in cui abitava, non si riuniscono tutti i protagonisti del romanzo.

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Immanuel Kant e la filosofia 2.0

   Una nuova concezione della conoscenza

di Camilla Rodella

   La Critica della Ragion pura, opera di Immanuel Kant pubblicata inizialmente nel 1781 e ripubblicata in una seconda edizione nel 1787, è giudicata come una tra le opere più complesse della filosofia occidentale.

   Qual era, però, lo scopo di Kant? Con il termine Critica, Kant intende ogni tipo di interrogativo circa il fondamento di determinate esperienze della conoscenza umana. Ma le sue domande a proposito della conoscenza non hanno niente a che vedere con le opere e riflessioni dei filosofi a lui antecedenti: Kant, infatti, vuole analizzare la conoscenza in modo “trascendentale” (termine essenziale per l’opera), ossia vuole capire cosa la rende possibile, come essa avviene e quali sono i suoi limiti.

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I mostri secondo Jim Jarmusch

di Pietro Phelan*

   Affrontare la permanenza forzata a casa non è senz’altro un compito semplice e gli stimoli per la nostra mente sono sempre più difficili da trovare. Da qualche settimana a questa parte, l’eventualità di cadere in un’asfissiante monotonia intellettuale è sempre dietro l’angolo, rischiando di far sembrare ancora più opprimente e insostenibile questo particolare periodo delle nostre vite. In molti accusano il fatto di non sapere come impiegare il tempo e in che modo trascorrere le lunghe giornate casalinghe che siamo “costretti” ad affrontare quotidianamente. Ma, in questo periodo più che mai, bisogna resistere alla tentazione di spegnere il cervello e rassegnarsi alla monotonia della quarantena. Tenere allenata la nostra mente, proporle stimoli sempre nuovi e originali, farla lavorare alla ricerca di nuove interpretazioni e idee originali, sono alcuni fra i migliori rimedi per evitare una lenta e inevitabile alienazione in se stessi.

   In questo senso, il cinema rappresenta uno degli strumenti più efficaci a nostra disposizione. Nelle sue espressioni più alte, questa forma d’arte riesce a stupire sia per i contenuti di cui si fa portavoce, sia per ciò che propone dinnanzi ai nostri occhi. Il cinema è un’unione inscindibile di parola e immagine, di forma e contenuto, che si distingue dalle sue arti “sorelle” per il fatto di proporre immagini catturate da un occhio mai fisso ma costantemente in movimento e in grado di offrirci molteplici punti di vista, ovvero la macchina da presa. E quando l’opera cinematografica è grande, ciò che possiamo trarre da essa è tanto un piacere estetico derivato dalla sua contemplazione (lo stesso che ricaviamo dall’osservazione di un eccezionale dipinto), quanto una nuova prospettiva sul mondo che ci circonda.

   Nelson Goodman, grande filosofo delle forme artistiche, pensava che un’opera d’arte potesse essere definita “grande” nella misura in cui essa fosse risultata “illuminante” per la nostra concezione del mondo. Un grande film, dunque, è quello che ci fa vedere cose che in precedenza avevamo tralasciato, che ci offre nuove e originali prospettive su tematiche già affrontate e che riesce a trasformare, anche solo parzialmente, la concezione dell’ambiente in cui viviamo.

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