di Michele Puccini
“Plotino o la semplicità dello sguardo”, di Pierre Hadot, (direttore della École pratique des hautes études dal 1964 al 1986 e poi nominato professore al Collège de France), è un titolo tanto efficace quanto enigmatico. Per chi è digiuno di filosofia, anche il nome “Plotino” può lasciare abbastanza indifferenti, ma allo stesso modo la seconda parte del titolo lascia intuire che vi è qualcosa di estremamente semplice nel libro, ma capace di toccare la dimensione umana, proprio come lo sguardo di un attento osservatore, che notando diverse situazioni riesce a mettere insieme i tanti piccoli dettagli che le compongono e magari ad entrare in empatia con l’evento o chi vi è coinvolto.
È proprio con questa tecnica che Pierre Hadot cerca di comunicare con il lettore, trasmettendogli un qualcosa di suo e dandogli un qualcosa che resti e che si riveli un vero insegnamento spirituale per la propria coscienza attraverso il pensiero del filosofo greco. È interessante cercare di capire proprio perché Hadot abbia scelto Plotino piuttosto che Socrate, Aristotele o Platone, nomi sicuramente più d’impatto e di cui conosciamo molto di più.
La risposta la potremmo ritrovare proprio in un’analogia nel pensiero dei due ma prima cerchiamo di conoscere meglio sia Hadot che Plotino.
Hadot nasce in Francia, nel 1922, e durante la sua vita si appassiona moltissimo alla filosofia antica e scrive numerosi trattati in merito, che ne testimoniano la grande abilità nel cercare di rendere la filosofia qualcosa di accessibile a tutti, in grado di elevare l’uomo facendolo ragionare e portando ad avere coscienza e mente in sintonia con il corpo.
Mentre Hadot, da vero filosofo “moderno”, ha scritto molto, il protagonista del suo testo, Plotino, nato a Licopoli in Egitto tra il 203 e il 206 a.C., non lascia praticamente niente di scritto in maniera organica, ma solo qualche appunto. Quel poco che sappiamo su di lui lo dobbiamo a Porfirio, un suo allievo, che ne parla nelle Enneadi. Sappiamo però che Plotino voleva essere ricordato non come filosofo, scrittore o poeta, ma per il suo pensiero, per le sue idee e per i valori che voleva trasmettere e passare.
È proprio ciò che evidentemente ha portato Hadot a scegliere Plotino: avere la preoccupazione di conoscere ogni dettaglio, che diventa poi un tentativo irrealizzabile di avere una conoscenza assoluta, è ciò che logora l’uomo: se la società non avesse questo desiderio vivrebbe più in pace, proprio come auspica Hadot.
Per riuscire a far trasparire queste sue intenzioni, che vogliono portare l’uomo a ragionare su stesso, il libro viene organizzato in otto capitoli, strettamente collegati tra loro da un importante filo-logico che è proprio quel sinolo di corpo e anima che costituisce la nostra natura.
Il libro inizia con un “Ritratto” in cui emerge un particolare della vita di Plotino: proprio come Socrate, oltre che non voler mai scrivere niente, si rifiutava pure di permettere ad altri di fare un suo ritratto. Si chiede infatti: “non basta trascinare questa immagine, di cui la natura ci ha rivestiti, dovrei anche consentire di lasciare dietro di me un’immagine di quell’immagine, più durevole ancora della prima, come se fosse un’opera che vale la pena di vedere?”
Con queste parole riusciamo a intuire la sua visione, secondo la quale non vale la pena raffigurare un singolo uomo, magari solo perché famoso; infatti l’arte deve avere una funzione euristica proprio come fece Fidia quando realizzò Zeus: “non prese alcun modello sensibile, ma lo immaginò quale sarebbe, se consentisse a manifestarsi ai nostri sguardi”.
Hadot sostiene questa tesi e la riporta proprio perché questa ricerca della verità, che trascina l’arte, è la stessa che trascina la nostra coscienza. Proprio come un pittore, se non è soddisfatto della sua opera, leviga, corregge, rimodella e ricerca un’immagine davvero veritiera, allo stesso modo dobbiamo ricercare la pace in noi stessi fino a quando non siamo davvero contenti di noi: soltanto quando osserveremo l’opera della nostra anima e saremo davvero felici del risultato ottenuto allora avremo raggiunto la felicità.
Questa ricerca della verità è particolarmente approfondita nel capitolo intitolato Livello dell’Io: “spesso ridestandomi dal mio corpo a me stesso, eccomi diventato estraneo a tutto il resto e intimo solo a me stesso, contemplo allora una bellezza meravigliosa e sono sicuro di appartenere in sommo grado al mondo superiore; ho vissuto la più nobile forma di vita, sono diventato identico al divino, mi sono basato sul suo fondamento, sono pervenuto a quella suprema forma di attività e mi sono stabilito al di sopra di ogni altra realtà spirituale;”
Con queste parole si intuisce che per Plotino ogni volta che egli si dedica al gesto di pensare vi si cimenta proprio come se fosse un’esperienza mistica e Hadot esalta con la semplicità del suo stile questa visione: il miglior modo infatti per scolpire correttamente quel blocco della nostra anima è proprio il vivere lontani dalle distrazioni della vita di tutti i giorni, raccogliendo noi stessi nella solitudine e convivendo con noi, con la nostra coscienza e prendendo consapevolezza dei nostri eventuali sbagli, per far sì che una volta “tornati” da questa esperienza mistica possiamo essere persone migliori e affrontare la vita con più tranquillità.
Nonostante possa sembrare strano, il “mondo spirituale”, mistico, di Plotino, è contenuto quindi in noi stessi: “se Dio non fosse nel mondo, non sarebbe neppure in voi.” La vita interiore viene percepita per Plotino come una vita divina, già preesistente, infatti le anime ci sono prima del corpo e ciò le rende un qualcosa che non appartiene al mondo terreno, ma al mondo divino.
Per Hadot, come del resto anche per Plotino, il dialogo con l’anima è un qualcosa di sacro, in quanto capace di migliorare la vita e se gli uomini si rendessero conto della sua reale importanza non avremmo molti dei mali che affliggono il mondo.
La presenza divina, e anche il dialogo dell’anima con se stessa, è ricorrente ne Le Confessioni di S. Agostino e nei Pensieri di Pascal: parole famose di S. Agostino, come “tu non mi cercheresti se mi non mi avessi trovato”, sono ricavate da Plotino. Proprio come le persone, se non si conoscessero, non si cercherebbero, allo stesso modo, se l’anima non esistesse già da prima, non sarebbe a conoscenza di quel mondo mistico in cui tanto ambisce a stare e che gli gnostici vogliono, stoltamente, far passare come un qualcosa di esterno e non proprio di noi. Il sinolo tra uomo e anima è strettissimo e non può non manifestarsi anche sotto forma di quello che è il sentimento prediletto del filosofo: l’amore.
Ma che cos’è l’amore? Un oggetto qualunque, per quanto bello, può bastare a spiegarlo? Perché ci innamoriamo? La risposta ce la dà sempre Plotino, il quale sostiene che “l’amore nasce quando, a partire da tale forma sensibile, egli genera autonomamente dentro di sé una forma non sensibile, nella parte indivisibile della propria anima. E se l’amante desidera vedere l’oggetto amato, è solo per irrorare quella forma non sensibile che rischia di seccare. Se prendesse coscienza del fatto che si va sempre al di là, verso ciò che è più privo di forma desidererebbe il Bene in sé.”
Per Plotino è chiaro che l’amore è qualcosa che lega due persone e crea un nuovo sinolo, tra due anime e due corpi. Il desiderio di rivedersi viene da un qualcosa di interno, da un’intesa non solo a livello fisico, erotico, bensì anche a livello mentale, comunicativo, assecondando la philia. Plotino riconosce però che gli amori possono, ovviamente, rivelarsi non corrisposti e causare non poche sofferenze a colui che ama e non è ricambiato, ma pensa che nonostante ciò sia giusto continuare a cercare chi ama, e anche quando non lo si trova.
È chiaro che l’amore a cui vuole che guardiamo Hadot non è per forza una devozione religiosa. Prima di tutto per amare gli altri dobbiamo amare noi stessi ed è soltanto amandoci che riusciamo a raggiungere quella pace interiore che è punto di riferimento per una vita serena. Solo imparando a tirare le proprie frecce si può diventare “una luce per gli uomini” e diventare saggi. Ma il saggio, ovvero colui che ha la predisposizione per la filosofia, non cade vittima degli eccessi delle passioni carnali e quindi anche di un possibile amore non corrisposto.
Hadot pare condividere questa posizione: l’amare qualcuno o qualcosa non deve portare all’annullamento di noi stessi, ma al contrario a vivere in una dimensione di maggiore completezza che permetta all’uomo di sviluppare a pieno i propri sentimenti e di vivere serenamente i suoi rapporti sociali.
Gli eccessi sono nemici delle virtù, e tra queste troviamo la prudenza, la fortezza e la temperanza, che permettono di regolare le passioni provenienti dal corpo e capaci di gestire i nostri rapporti con gli altri. D’altra parte, altrettanto importanti sono le virtù purificatrici: Plotino sostiene infatti la tesi che “la virtù è nata da un atto contemplativo”. Con il termine contemplazione s’intende una disposizione spirituale e religiosa dell’anima, divina, che Hadot ci spiega non essere in fondo null’altro che un esame autocritico della propria coscienza. Attraverso questo esercizio il rapporto con il divino, con il proprio daymon socratico, diviene continuo.
Dolcezza e solitudine si palesano così, per Hadot, come due elementi chiave della filosofia di Plotino: la solitudine, quella vera, in cui le anime più corrotte hanno paura a trovarsi per via dei rimorsi, è la via migliore per trovare le risposte a ciò che cerchiamo; così come la dolcezza nel lasciarsi trasportare verso il dialogo con sé e con gli altri, oltre a renderci più sereni e sinceri, può rendere migliore la società in cui viviamo.
Infatti “il bene è pieno di dolcezza, di benevolenza e delicatezza: è sempre a disposizione di chi lo desideri”. Proprio questi versi rendono chiaro il messaggio di civiltà che Plotino trasmette a tutti noi: i suoi insegnamenti sono senza tempo e, in un mondo che sembra povero di valori, ci fanno riflettere su quanto sia importante ritrovare la “semplicità” del proprio sguardo.